Le apparenze a volte “ingannano” e possono creare una sorta di incredulità a chi è il destinatario o il fruitore o meglio dire, in questo caso lo spettatore, quando si reca a teatro, consapevole e convinto di andarci per assistere ad una rappresentazione dell’opera, scelta con tutti i crismi tradizionali (consueti) che la convenzione artistica, teatrale – registica detiene e mette in atto. Ma è solo questione di un attimo fugace, svanito in un battibaleno. Prendi coscienza che lo spettacolo è già iniziato a sipario aperto è ciò che accade sul palcoscenico è il prologo di un’idea, di un progetto che fa piazza pulita di tutti gli orpelli, le finzioni, le abitudini trasmesse nei secoli di un certo modo di rappresentare i classici e lo stesso Molière. Eppure si sta assistendo ad un caposaldo della drammaturgia teatrale, rispondente al nome di Molière, l’ autore della commedia L’Avaro.
Ed è un Avaro nel solco della tradizione “anti-tradizione” del Teatro delle Albe. Per chi conosce bene questa compagnia che fa capo al Teatro Stabile di Innovazione di Ravenna, è solo una conferma del loro percorso iniziato nel 1983 da Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcello Nonni, uniti insieme da un ideale a teatro che permettesse loro, di dare vita ad una «forma di apertura all’illimitato» (concetto preso a prestito da Giordano Bruno), dove la conduzione registica di Martinelli si è avvalsa spesso della collaborazione degli attori nello scrivere i testi, da realizzare in scena, tutti insieme, in una forma sinergica tale, da considerarli come dei co-autori, spiegando anche la creazione drammaturgica che ne segue come «teatro di carne».
L’Avaro è iniziato e già fa discutere per la sua concezione registica di destrutturare la scena con un via vai di finti tecnici (attori nella parte) intenti a spostare arredi scenografici, al fine di non creare l’ambientazione ma al contrario, di togliere, sottrarre, spogliare ciò che c’è ma non c’è, o meglio c’è ma è superfluo. Lo si fa vedere per il tempo necessario per evocare metaforicamente un significato voluto dalla regia, come per lo schermo televisivo in cui appaiono gli spettatori in sala, o i riflettori utilizzati per illuminare la scena. Una casetta che è la casa di Arpagone ma che diventerà anche una cassetta, lo scrigno dove il protagonista della commedia di Molière nasconde tutti i suoi averi. Il suo regno segreto dentro una scatola.
Sparisce tutto ma rimane l’Avaro. Lui è una Lei: Ermanna Montanari vestita di nero, immersa nel nero, inquieta nel suo animo nero, gelosamente attaccata al suo scettro: un microfono tenuto stretto nella mano, simbolo di un potere arroccato su se stesso. Arpagone non conta il denaro nel suo incessante e disperato tentativo di fermare la vita stessa, il suo scorrere inevitabile, piuttosto è una presenza fisica in “carne ed ossa” evocatrice e rivelatrice del maligno insito nel genere umano. Incarna la figura di un despota, di un dittatore padre/padrone delle esistenze altrui, di un tiranno che assoggetta il suo popolo e lo rende succube delle sue malvagità. L’avarizia e l’avidità contiene un ipnotico maleficio che impedisce di amare e di provare piacere nel dare e non solo nel possedere Questo priva di fatto la capacità stessa di vivere. Il possesso del potere inaridisce la persona avida e fa della sua anima un luogo miserabile e povero.
Ed è quello che forse accade a questo Arpagone -Emma Montanari, superba interprete nel dare vita ad un personaggio giocato tutto sulla sua presenza carismatica sulla scena, dove la sua esistenza stessa viene emanata da un fluire di registri vocali ora gutturali, ora stridenti, voci che suscitano brividi e strane sensazioni. Sono “voci di dentro” parafrasando una celebre commedia di Eduardo De Filippo, solo che in questo caso sono voci drammaturgiche che esaltano il testo di Molière, reso efficacemente in primis dalla traduzione di Cesare Garboli e rispettato alla lettera da Martinelli e dalla scelta recitativa (a differenza del passato dove il testo subiva profonde modificazioni). È significativo che la contemporaneità del testo, scritto dal drammaturgo francese, così calzante nell’ entrare in risonanza con quanto accade nella società attuale, sia un travaso feroce e acuto, intrinsecamente contenuto nell’Avaro e capace di attualizzarsi fino ai giorni nostri.
Il potere che si erge a padrone assoluto, un’avarizia che sfocia nel razziare anche il bene comune, negli affetti e nei sentimenti. Ma è un Avaro che però si distacca da tutto il resto. Opera per piani sovrapposti, si stratifica per azioni/movimenti, dialoghi e reazioni. Il vuoto della scena viene riempito e svuotato dalla voce -corpo di Ermanna Montanari e da tutti gli altri personaggi che si muovono come tante pedine su una scacchiera manovrata da mani invisibili. Uomini e donne, servitori mossi a comando, spostati da servitori di scena che sono a loro volta manovrati da un ordine superiore che tutto controlla e domina. Regna come uno strano caos sul palcoscenico ed è l’idea di Martinelli nel voler sparigliare le carte del “gioco teatrale”, di scardinare un ordine costituito, forse in alcuni momenti risulta un po’ eccessivo nell’economia dello spettacolo, come un effetto domino quando da vita alle parti coreografiche e di movimentazione delle figure.
I servi di scena non esitano a trasformarsi in cinici approfittatori, alla stregua del suo padrone/padrona, o peggio ancora, scaltri, subdoli e amorali a cui interessa solo l’ agio e lusso da ricercare con ingordigia. Il grottesco e la recitazione anti – naturalistica sono alcuni dei codici espressivi, scelti per questo Avaro che spiega come l’uomo sia sempre lo stesso, visto da Molière nel Seicento quanto quello che vive nel 2012, tra tentativi di impossessarsi della vita altrui, pretese di sposare una giovane ragazza da parte del vecchio Arpagone che non esita a ferire i sentimenti del figlio, il quale a sua volta è innamorato della stessa giovane.
Su tutti si distinguono Roberto Magnani nei panni di Cleante il figlio senza nessun scrupolo morale nel desiderare la morte del genitore per impossessarsi del patrimonio (figura che più attuale di così non si può) e Michela Marangoni, una serva Frosina furba e scaltra. Insieme agli altri (giovani interpreti, alcuni di loro provengono dai laboratori condotti dalle Albe, lavoro prezoso per dare un futuro a chi sceglia la carriera di attore), fanno parte di un mondo dove regna «un piccolo sovrano con la sua corte popolata di larve» (parole testuali degli autori dello spettacolo), dove la luce e il buio si alternano per dire che la vita e la morte, l’amore e l’odio, la generosità e l’avarizia sono onnipresenti nella vita dell’uomo, da cui è impossibile trascendere.
I meandri bui della coscienza sono labirinti tutti da scoprire e le esplosioni di gioia come nella scena del ballo in discoteca, è qualcosa di simile ad un’euforia collettiva per esorcizzare il male che è sempre celato nel nero incombente che può calare da un momento all’altro. E come era iniziato, l’Avaro finisce con lo stesso effetto estraniante colto al principio. Si accendono le luci di sala e appare tra il pubblico il regista che appare come salvatore, l’uomo saggio che generosamente offre le sue ricchezze per riportare l’ordine e l’armonia tra tutti. Riconcilia al mondo la vita di ognuno. Lui è Anselmo, il padre venuto da lontano, ma è anche l’illusione e la speranza di chi crede ancora in un mondo dove poter convivere senza la necessità di sottrarre ad altri ciò che non è tuo e non ti appartiene di diritto.
L’Avaro di Molière
traduzione: Cesare Garboli
ideazione: Marco Martinelli, Ermanna Montanari
con: Loredana Antonelli, Alessandro Argnani, Luigi Dadina, Laura Dondoli, Luca Fagioli, Roberto Magnani, Michela Marangoni, Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Alice Protto, Massimiliano Rassu, Laura Redaelli
spazio: Edoardo Sanchi
costumi: Paola Giorgi
musiche originali: Davide Sacco
luci: Francesco Catacchio, Enrico Isola
regia: Marco Martinelli
Visto al Teatro Santa Chiara di Trento il 26 gennaio 2012