Recensioni — 26/12/2022 at 16:44

Lo spazio e il tempo della memoria in Via del popolo di Saverio La Ruina

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RUMOR(S)CENA – MILANO – Tornare a visitare i luoghi della gioventù, per un adulto ormai in età, in qualche modo è sempre una visita al cimitero: le strade, le case, gli ricordano inevitabilmente persone che hanno animato quei luoghi, ma che non ci sono più. Questa una delle idee portanti sottese al testo e alla scenografia di Via del popolo: l’ultima produzione della ormai trentennale compagnia “Scena verticale”, scritta e interpretata da Saverio La Ruina. La scena, infatti, non tenta neppure di suggerire l’urbanistica di una cittadina meridionale, ma è punteggiata, quasi ingombra di cilindri illuminati, che richiamano le lampade votive di un camposanto.

Ma sotto l’apparenza di un racconto personale, lo spettacolo tratta, senza averne l’aria, la percezione di due entità sulle quali i filosofi si sono interrogati per secoli, per non dire millenni: il tempo e lo spazio. Il tema del tempo è richiamato, con leggerezza e ironia, anche da un elemento scenografico: l’immagine, che si direbbe mutuata da Dalì, di un grosso orologio da taschino appeso alla graticcia, ma che sembra si stia sciogliendo, con la sua parte inferiore che si deforma allungandosi, come fosse di cera.

Ci sono anche i giochi che Saverio faceva da bambino, quando aveva creduto di poter fermare il tempo, semplicemente pigiando il pulsante che bloccava la lancetta del cronometro che gli avevano regalato. E poi c’è un esempio e una riflessione sulla temporizzazione dello spazio: il diverso tempo impiegato da due differenti persone a percorrere la Via del Popolo del titolo. Sia chiaro, tuttavia, che non c’è, nello spettacolo, alcuna dissertazione filosofica sulle forme a priori kantiane: il monologo si snoda secondo gli accattivanti, svagati modi affabulatori tipici di Saverio, nella varietà del suo repertorio mimico e gestuale; evoca il suo passato, recuperando con tenerezza la realtà del borgo nativo, sul versante settentrionale, lucano del Pollino, ove ha trascorso l’infanzia, e il suo inserimento a Castrovillari, la cittadina di adozione adagiata sulle pendici calabresi di quello stesso monte, rinomato per la presenza del raro pino loricato. Una distanza breve, se misurata in chilometri, ma abissale nella sua percezione soggettiva di ragazzino.

Sul ricordo di chi non c’è più, ma i cui fantasmi sembrano ancora percorrere Via del Popolo, sui giochi e le avventure infantili, sulle vicende passate per sempre, ma recuperabili nella memoria, Saverio intesse  una narrazione densa di citazioni scopertamente autobiografiche, dalle quali emergono figure sia rurali, sia cittadine, esemplari di una cultura patriarcale del sud d’Italia, forse superata, ma portatrice di una saggezza popolare atavica, dipinta con affetto, senza mai cadere in stereotipi veristi, sull’onda dei suoi altri monologhi meridionalisti, altrettanto efficaci, come Dissonorata e La borto.

Materialmente solo sul palco, Saverio riesce a far percepire intorno a sé la presenza delle persone care, le figure e le ambientazioni del suo paese, dando loro vita, calore e colore: segno – vorrei dire – di una sensibilità umana che connota e caratterizza anche la modalità dei suoi rapporti sociali e personali.

Visto al teatro Menotti di Milano il 7 dicembre 2022

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