RUMOR(S)CENA – TRENTO – Lunedì 19 dicembre 2022, pochi giorni prima delle festività del Natale, un giorno come tanti. Eppure, così diverso per gli oltre 130 studenti del Liceo Rosmini di Trento che, seduti in aula magna, hanno dialogato con Roberto Rinaldi e Vincenzo Fagone sull’attività trattamentale del teatro in carcere. Un incontro significativo ed emozionante. Già, perché non accade tutti i giorni di poter entrare in un carcere attraverso gli occhi di due persone che condividono la passione e l’esperienza del teatro, seppur da punti di vista differenti. Stefano Kirchner, dirigente del Liceo Rosmini ha accolto i partecipanti all’evento tra i quali anche Annarita Nuzzaci, direttrice del carcere di Trento, e alcuni giornalisti.
Roberto Rinaldi, giornalista e psicologo, autore della tesi “Teatro dentro le mura. Un varco verso una società inclusiva” (Università degli Studi di Padova Corso di Alta Formazione Dipartimento di Filosofia, pedagogia e psicologia applicata (FISPPA) “La passione per la verità. Come informare promuovendo una società inclusiva” Anno accademico 2020/21) ha dialogato con Vincenzo Fagone, detenuto in regime di semilibertà con contratto di lavoro all’esterno ed ex attore della Compagnia della Fortezza della Casa di reclusione di Volterra.
Roberto Rinaldi ha spiegato, anche grazie al documentario “Anime Salve”, realizzato da Domenico Iannacone, autore del programma “I dieci comandamenti”, realizzato per RAI 3, alcune caratteristiche della vita in carcere di chi sta scontando una pena ed evidenziato quanto il teatro possa migliorarla, soprattutto rispetto alle relazioni che si instaurano tra gli abitanti di una casa circondariale, siano essi detenuti o guardie carcerarie, e gli esterni. Gli spettacoli della Compagnia della Fortezza, che opera all’interno del carcere di Volterra, sono aperti al pubblico. Questo non sarebbe possibile senza una vera assunzione di responsabilità da parte di tutti anche perché, come ha chiarito Roberto Rinaldi, ci sono alcune differenze significative tra la preparazione di uno spettacolo teatrale all’esterno e di uno all’interno di un carcere, compresa la scarsità di risorse a disposizione.
Lo spettatore che entra in una casa circondariale lo fa per tante motivazioni differenti e, spesso, proprio come è accaduto al nostro interlocutore, ne esce in crisi rispetto alle idee e ai pregiudizi aveva quando è entrato. Lo stigma, infatti, è legato all’idea che chi sta dentro sia cattivo; chi sta fuori, invece, sia buono. Nella comunità che esiste in carcere però, coabitano tante storie, per chi ha voglia di ascoltarle, e si trovano anche fratellanza, solidarietà e inclusione, quella stessa che si cerca fuori, una volta usciti, quando il primo modo per sentirsi parte del mondo “esterno” è quello di trovare un lavoro che restituisca quella dignità che mai avrebbe dovuto essere persa. In questo, attività trattamentali quali quella del teatro, permettono ai carcerati di capire che esistono possibilità di un percorso diverso da quello che li ha portati in carcere. Una volta usciti, cercano un lavoro e, soprattutto, cercano di contribuire al progresso della vita sociale.
Chi entra in carcere in qualità di spettatore lo dovrebbe fare con gli occhi e il cuore di chi vuole capire. Sempre. Questo aspetto in particolare è molto importante per i detenuti perché permette loro di (ri)conquistare autostima e di sentirsi parte del mondo. Questo però, è un percorso difficile e faticoso sotto molti punti di vista. Molti studenti si domandano a cosa serva ciò che studiano. Una risposta l’ha fornita loro Roberto Rinaldi spiegando che gli attori della Compagnia della Fortezza studiano le opere dei drammaturghi e che in un anno hanno letto tutto Shakespeare ed estrapolato frasi significative – che hanno poi imparato a memoria. Perché leggere Shakespeare? Perché il messaggio della letteratura – e del Bardo – è legato a sentimenti universali che ancora oggi permettono di comprendere meglio il mondo e capire quale sia il nostro ruolo nella società in cui viviamo. Questo percorso però deve essere fatto con umiltà.
Una volta presa la parola Vincenzo Fagone chiarisce quanto il teatro abbia contribuito al suo cambiamento, evidenziando però che è solo una parte del suo percorso. In questo, ammette che cambiare è difficile anche per la paura di guardarsi dentro: lo status di detenuto è legato ad un’azione che si è commessa e che ha ferito altre persone. La prima sensazione di chi entra in carcere, però, è legata ad un senso di ingiustizia: ci sono tante persone fuori che commettono azioni non oneste, ma che non vengono punite. Inoltre, la condanna è spesso vissuta come una punizione che si sconterà anche usciti dal carcere perché lo stigma rimane anche fuori e si fa fatica a trovare qualcuno che dia fiducia.
Pronunciando queste parole Fagone non nasconde di essere emozionato e spiega ai suoi attenti uditori che poche ore prima di parlare con loro ha ricevuto un messaggio che lo ha spronato a ricordarsi da dove è partito e a concentrarsi su tutto quello che c’è dentro quel viaggio. Le nuove generazioni secondo lui dovrebbero essere formate per capire e affrontare ciò che troveranno al termine del percorso scolastico, nel mondo “reale”. Ciascuno di noi è chiamato a prendere delle decisioni sulla propria persona, ma la struttura intellettuale sarà quella che ci porterà a conoscere le persone giuste e a fare le scelte migliori. Perciò studiare consente di avere chiavi di lettura del mondo e di sé stessi. Lui, ad esempio, sta conseguendo una laurea in sociologia e ha due diplomi.
Più volte, Fagone ripete che dobbiamo conoscere noi stessi e accettarci per ciò che siamo perché ogni essere umano racchiude in sé una forma di bellezza. Il teatro costringe non solo a prendersi delle responsabilità, ma anche a guardarsi dentro. Ad esempio, i detenuti-attori leggevano Montale e scrivevano sul muro le frasi che, in qualche modo, parlavano al loro cuore. Poi ne recitavano l’essenza. Anche questa pratica ha contribuito a “distruggere” l’ego e a diventare attori principali delle proprie scelte, invece che lasciarsi guidare da altri. Essere sé stessi è difficile anche perché si ha paura di perdere gli altri (amici e famiglia compresi), ma è fondamentale farlo anche per affrontare il dolore di coloro ai quali il reo ha inflitto un torto. Con una semplicità disarmante Fagone spiega infatti che un detenuto si sente tale quando si mette addosso il dolore della propria famiglia e di quella che è stata ferita. Questa tappa viene vissuta come pietre nel cuore.
Conclusa questa prima parte si lascia quindi spazio ad alcune domande degli studenti e delle studentesse.
La nostra generazione si fa portavoce di diritti umani e ambiente, ma perché parlare di carcere è un tabù? Adesso a Trento la struttura è fuori dalla città, in un posto sperduto, mentre prima era in centro e si potevano vedere i detenuti affacciati alle finestre. C’è il rischio che queste persone passino del tempo in un “contenitore di uomini” e forse questo è il motivo per il quale sono aumentati i suicidi?
Secondo Vincenzo Fagone il problema è della struttura. Il numero dei suicidi legati al carcere nel 2022 è stato di 82 persone ma sono anche dei casi di suicidi tra gli agenti di guardia perché il malessere non è solo di chi è recluso. Per questo, Volterra è una realtà esemplare nella quale c’è un clima di fiducia.
Dal suo punto di vista, però, uno dei problemi è che si sta parlando di una struttura della quale ci si vergona. Per questo, la si mette fuori dalla città. Il problema, però, è più complesso: essere diversi fa così paura che chi lo è rischia di essere considerato quasi matto anche perché la società nella quale viviamo è concentrata sull’individualismo e sullo scambiarsi emozioni tramite social network invece che di persona. Purtroppo le nuove tecnologie ci rendono più preparati intellettualmente, ma anche più soli e questo lo si capisce dal fatto che non abbiamo più tempo perché va tutto troppo veloce. Lui, ad esempio, nota ancora con stupore le differenze tra il tempo quasi immobile in carcere, che però gli permetteva di riflettere e lavorare su se stesso, e quello sempre frenetico del mondo fuori, soprattutto quando si lavora e si fatica persino a rispondere alla telefonata di una persona cara.
Roberto Rinaldi aggiunge che i suicidi sono lo specchio di un’emergenza sociale nella quale viviamo una sofferenza così profonda da scegliere volutamente di toglierci la vita. Va però sottolineato che ci sono differenze significative tra carcere e carcere. Volterra, come spiegato in precedenza, è una realtà diversa: organizzare uno spettacolo teatrale in quella struttura richiede molto lavoro extra anche da parte delle guardie che devono garantire la sicurezza di tutti. Rinaldi illustra altri esempi virtuosi quali il carcere di Modena e quello di Gorgona che è una colonia agricola nella quale si producono vini. All’inizio c’era anche un macello, smantellato a seguito delle numerose richieste dei carcerati: ora gli animali vivono liberi e sono considerati da compagnia.
Il giornalista sottolinea inoltre l’importanza di guardare e riconoscere i detenuti come persone e puntualizza che i suicidi avvengono in contesti di privazione quali il sovraffollamento. Il teatro aiuta a riflettere e a non avere fretta. Questa, come le altre proposte formative all’interno del carcere, è opportunità che si può decidere di non accogliere.
Cosa si prova a tornare liberi?
Vincenzo Fagone chiarisce che la libertà che si conosce fuori dal carcere è diversa da quella “originaria” che è ormai persa. Per lui, ad esempio, la prima sensazione legata alla libertà è stata di stordimento, di una velocità alla quale non era più abituato e che a volte si fa ancora sentire. Aggiunge inoltre che la libertà è qualcosa che hai dentro. Infatti, dice di essersi sentito più libero in carcere che fuori perché là non importa essere il migliore: ognuno di noi ha una qualità e una forza personali e uniche. In un luogo come quello di una struttura chiusa e controllata, ad esempio, si comprende che il merito di una missione spaziale lo prende l’astronauta, ma dietro ci sono altri esseri umani che hanno reso possibile il suo viaggio.
In Scandinavia hanno prigioni innovative perché consentono la riabilitazione di chi ha commesso un crimine: cosa fa redimere una persona?
Secondo Vincenzo Fagone la realtà Scandinava è positiva perché i detenuti vengono valorizzati per loro qualità e viene fatto loro capire che hanno una seconda possibilità perché fanno parte di una comunità. Ha però anche un grosso limite legato al fatto che in quel paese quando nasce un bambino viene deciso da subito cosa dovrà fare (ad esempio, le scuole che dovrà frequentare) perché si aspira alla perfezione. Si dovrebbero invece lasciare libere le persone di scegliere e prendere in considerazione il contesto: un insegnante che non metta passione nel suo lavoro trasmetterà agli studenti il messaggio che non vale la pena studiare quella materia o quell’argomento.
Roberto Rinaldi aggiunge che la Costituzione Italiana prevede, per la redenzione del reo, di farlo lavorare e non di chiuderlo in un mondo altro come quello del carcere. In Italia c’è lavoro in carcere grazie a Doppia Chance, una associazione di volontariato che aiuta le aziende a scegliere i detenuti in base alle loro competenze. Viene fatto l’esempio del carcere femminile della Giudecca nel quale ci sono una lavanderia e un orto dove si coltivano piante usate per confezionare prodotti di erboristeria Il lavoro permette il recupero della persona perché chi non lo ha si sente incompreso ed emarginato. È importante restituire dignità e offrire una seconda possibilità: se il carcere non se ne occupa, la struttura in sé non serve a nulla.
Si torna quindi a parlare del carcere di Volterra. In particolare, di responsabilità personale e spirito di gruppo: un anno alcuni attori che hanno concluso il loro periodo di detenzione prima dello spettacolo hanno chiesto un permesso speciale per rientrare in carcere: sapevano che lo spettacolo senza di loro non sarebbe stata la stessa cosa.
Il carcere dovrebbe educare la persona a perdonarsi: è così?
Roberto Rinaldi sottolinea il fatto che non sia facile farlo anche perché spesso l’istituzione carceraria non fa nulla se non colpevolizzarti con numerose privazioni. Vincenzo Fagone conferma che perdonarsi non è facile né reso tale dal contesto e che non è sicuro di esserci riuscito totalmente con se stesso. È importante in questo mettersi nei panni degli altri, ma prima di tutto guardarsi dentro perché se anche gli altri non dovessero perdonare, ci si deve concentrare sulla propria voglia di vivere e su quella di credere che si possa avere una seconda opportunità. Poi, aggiunge che forse saprà di averlo fatto solo quando avrà recuperato totalmente la relazione con le persone significative della sua vita.
Come ha capito di avrete una vocazione per l’arte (ad esempio, per noia)?
Vincenzo spiega che in realtà non ha mai pensato di avere una vocazione e non ha l’abitudine di progettare nulla nella vita: non aveva esperienza di teatro né un richiamo dell’anima, ma ha deciso di mettersi in gioco anche perché recitare è una dote naturale in certi ambienti che ti costringono ad essere maschera. Rinaldi aggiunge che a Volterra i detenuti si avvicinavano al teatro osservando, ma decidendo spesso di non fare in modo attivo per imbarazzo e per vergogna. Uno di loro, ad esempio, ha chiesto di entrare nella Compagnia solo dopo tre anni da spettatore. È importante sottolineare che la partecipazione è comunque condizionata al tipo di pena: ad alcuni detenuti infatti non è permesso partecipare. Fagone torna quindi a parlare dell’importanza di essere sé stessi e di seguire le proprie passioni che vanno curate o non cresceranno.
Era cosciente del reato che ha commesso?
Vincenzo Fagone risponde in modo affermativo e spiega che la sua colpa principale è stata quella di non aver denunciato chi ha effettivamente commesso il reato. Interviene quindi Roberto Rinaldi sottolineando il fatto che anche in carcere vengono commessi dei reati e che il pericolo di reiterazione è costante, mentre invece l’istituzione carceraria dovrebbe offrire opportunità di riabilitazione. Purtroppo, il pericolo di fare le scelte sbagliate che ti portano ad essere condannato è concreto anche a causa di fattori ambientali e culturali ai quali si aggiungono gesti di impeto e momenti di rabbia.
Il giorno successivo all’incontro gli studenti esprimono la gioia di aver partecipato e di aver incontrato una persona che, con umiltà e semplicità, ha condiviso con loro una parte così significativa della propria vita. Qualcuno commenta con gratitudine un’esperienza che ha permesso di guardare con occhi nuovi e liberi da pregiudizi una realtà della quale si parla così poco.
A cura di Anna Fioravanti insegnante del Liceo Rosmini di Trento