Recensioni — 19/02/2023 at 09:23

Il giardino dei ciliegi: inattesi ma possibili interventi drammaturgici sull’ultimo, complesso capolavoro di Čechov

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RUMOR(S)CENA – MILANO – L’aver assistito a un notevole numero di edizioni del Giardino dei ciliegi: a partire da quella iperrealistica di Luchino Visconti, con un maestoso ciliegio in scena; ai magici velari di Strehler; fino alle proiezioni sgranate, d’antan, di Dodin, mette il recensore in una sorta di imbarazzo: si ha la tentazione di operare dei confronti, che sarebbero inopportuni. È curioso, peraltro, che non si tratta affatto di ciliegi, ma di amareni o, più precisamente, di viscioli (come suggerisce il suono stesso del titolo russo Višnëvyj sad. Ma chi avrebbe oggi il coraggio di proporre un titolo – filologicamente forse più corretto, ma scostante – quale “Il giardino dei viscioli”?).

Fra teatranti si suole dire che Shakespeare sopporta ogni intervento registico, senza soffrirne; non si sarebbe detto che ciò potesse valere anche per Čechov: ma forse, è così. Rosario Lisma firma e interpreta un’accurata, ma ardita riduzione a sei personaggi di un Giardino, riportato all’oggi e in abiti per lo più moderni (la sbarazzina minigonna della giovane Anja; ma anche i Knickerbockers ottocenteschi di Gaev); con messaggi sul telefonino che sostituiscono i telegrammi.

Il giardino dei ciliegi©Laila Pozzo

Un’attualizzazione di cui sfugge l’opportunità, anche perché certi avvenimenti storici e sociali, come l’abolizione della servitù della gleba, si affacciano alla vicenda con inevitabile impertinenza ed emergono nei dialoghi. E siccome dovremmo comunque essere in Russia (o addirittura in Ucraina, o in Crimea), malgrado il risuonare di canzoncine moderne, nulla ci fa percepire il paese governato (né quello aggredito) da Putin.

Anche lo sfrondamento dei personaggi minori risulta non del tutto coerente, in quanto alcuni di essi (come Dunjaša ed Epichodov, detto “Settantasette disgrazie” – ovvero ventidue, nell’originale), pur non comparendo in scena, vengono nominati nei dialoghi. Quanto a Firs, il vecchio servitore dolorosamente nostalgico della servitù della gleba, la soluzione di sostituire la sua presenza con la voce fuori campo di un grande attore come Roberto Herlitzka ha una sua indubbia suggestività, ma non convince fino in fondo.

Il giardino dei ciliegi©Laila Pozzo

Detto ciò, la parola di Anton Pavlovič, e le situazioni che essa crea, sono talmente forti e penetranti, pur nella loro apparente evanescenza, che la vincono su qualsiasi intervento drammaturgico. Bella l’essenziale scenografia di Federico Biancalani, con fondali che ricordano i tessuti di Mariano Fortuny, esaltati dalla creativa modulazione delle luci di Luigi Biondi. E gli interpreti sono tutti bravi e aderenti ai loro personaggi: sia i più giovani (la dolente Varja di Eleonora Giovanardi, la dolce Anja di Dalila Reas, lo scontroso eterno studente Trofimov di Tano Mongelli – che forse ci si aspettava più brutto e spelacchiato, visto che la sua scarsa avvenenza è sottolineata a più riprese); sia i più maturi (il vanesio Gaev di Giovanni Franzoni; il grossolano, solo apparentemente rincivilito Lopachin, interpretato dallo stesso Lisma).

All’importante ruolo che aveva cucito addosso a sua moglie, l’attrice Olga Knipper, Čechov aveva voluto conferire un nome fortemente simbolico, che personificasse l’amore: Ljubov’ – da cui il diminutivo Ljuba – in russo significa “amore”, ed è anche il nome della virtù teologale che i cattolici chiamano “Carità”. Qui, tale impegnativo ruolo è affidato a Milvia Marigliano, che lo interpreta con passione: un’attrice di valore che, tuttavia, anche nel passato prossimo, si era vista in prove più convincenti.

Il teatro di Čechov è cosparso di simboli, addirittura fin dai titoli, come per il Gabbiano, e sono proprio gli alberi e il loro abbattimento che, anche in Tre sorelle, assumono in modo trasparente tale funzione. Meno immediato il significato della didascalia finale del Giardino, quel “suono lontano che sembra venire dal cielo, come di una corda musicale che si spezza, un suono che a poco a poco tristemente svanisce. Poi tutto è silenzio: giunge soltanto di lontano l’eco dei colpi delle scuri che abbattono il giardino dei ciliegi.” Un suono simile, ugualmente inquietante, è peraltro già echeggiato in un momento precedente, nel secondo atto.

Il giardino dei ciliegi©Laila Pozzo

I registi si sono a volte trovati in difficoltà nel dare corpo a questa indicazione finale, giungendo anche a ignorarla: Dodin l’ha risolta con una sirena di fabbrica, annuncio di una nuova era. Anche Lisma la ignora, e risolve il finale con un’assordante sinfonia di seghe a motore (non l’arcaico rumore delle scuri), diretta con gesto imperioso da Lopachin, al colmo della sua gioia di padrone “della più bella tenuta che esista al mondo” che, peraltro, lui si dispone a snaturare. E Lisma aggiunge un’azione finale: Lopachin tenta, con difficoltà, di aprire l’armadio della stanza dei bambini, anch’esso carico di significati simbolici, come se volesse appropriarsene; ma quando finalmente ci riesce, questo si spalanca sul vuoto del retropalco dal quale, timidamente ma gioiosamente, si affacciano dal passato gli altri cinque personaggi, mentre lui si ritira al limite del proscenio, dove l’avevamo visto, addormentato, all’inizio del primo atto.

Il giardino dei ciliegi©Laila Pozzo

Sarebbe riduttivo considerare questa azione un mero espediente registico per introdurre i saluti, quanto piuttosto una possibile lettura personale di un testo decisamente complesso che, a dispetto della interpretazione di Stanislavskij, Čechov aveva voluto chiamare “commedia”. Da quel borghese conservatore che era, ancorché illuminato, Anton Pavlovič, con anticipo anche sui prodromi della rivoluzione che si sarebbero manifestati nel 1905 – un anno dopo la sua morte – aveva percepito che i tempi stavano cambiando, e non ne era entusiasta. Quell’azione vuol forse suggerire che tutto ciò che succede nei quattro atti sia un sogno, un’allucinazione di quel rozzo contadinotto arricchito che è Lopachin (come lui stesso dice di temere, nel terzo atto)?

Non è detto, ma può darsi. Uno spettacolo teatrale – per fortuna – non è un teorema matematico, e una certa misura di ambiguità può essere parte del suo fascino.

            

Visto a Milano, al teatro Menotti il 15 febbraio 2032

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