Il mostro italiano: habitat e ripopolamento
RUMOR(S)CENA – PRATO – Noi divoratori di storie barbare e scure lo sappiamo: in compagnia dei diurni, mai usare la parola con la H. Macabro va bene, gotico al massimo; ma è inutile metterli in imbarazzo con la H word, se proprio non la possono soffrire. Specialmente adesso che abbiamo a disposizione un paroletta magica che, eufemismo o precisazione, cosmesi o trasfigurazione, stringi stringi piace un po’ a tutti. Ad avercela avuta prima, Svevo, la Ortese, De Marchi e Capuana non avrebbero patito i pruriti che ancora affliggono i conoscitori delle loro opere; e più si scende nei possibili significati, più sembra calzare sul volto nascosto della nostra letteratura.
Insomma l’Italia, destatasi da storicismi inquieti, si sarebbe finalmente ritrovata WEIRD. Ma davvero basta una parola per sperare in un bel futuro rosso sangue? Io credo di no. Le storie di spettri, di cupi natali e oscenità puritane, il terrore dello stato di natura, sono troppo lontani da noi per crederci fino in fondo. Dopotutto, nel gotico anglosassone gli italiani erano il mostro, non il protagonista. Abbiamo scritto, girato e immaginato cose bellissime grazie al mestiere, ma forse ne abbiamo troppo per credere nel genere, nella maniera. La buona notizia però, è che anche gli altri hanno smesso di crederci. America, Inghilterra, ogni last one screaming ingaggiato con India, Asia, est, sud e centro Europa sta già nel logaritmo del brivido, contrazioni e convolvoli compresi.
Si sfornano delikatessen, ma sono i guilty pleasure e la talkability dell’horror a muovere l’intero congegno. Questo accade, da una parte della linea. Perchè, badate, esiste una linea oltre la quale il logaritmo, l’equazione, gli esperti del genere si dissolvono e Weird, non è solo una parola diversa per dire la stessa cosa. Un salto, un abisso in cui nessuno sa cosa sta per succedere e il modo esatto per farlo accadere. Al Fabbricone di Prato, aldilà di quella linea ci ho trovato Fabio Condemi e Fabio Cherstich, che accompagnandomi in Nottuari erano scivolati giù insieme a me. Dove il nuovo, fa ancora paura.
O/errori di percezione
Chissà se aldilà della linea c’era anche lo spettatore che mai aveva incontrato l’immaginario di Ligotti e da tempo non sbirciava sotto al cappellaccio dell’horror. La dimestichezza con lo scrittore americano ha senza dubbio offerto un’esperienza diversa e quindi l’autocompiacimento, una buona dose di crudele tenerezza per quel vicino di posto sicuramente più turbato e perplesso di me, nel trovarsi faccia a faccia con Thomas Ligotti. Insomma, ci sono cascato di nuovo. Nottuari di Condemi e Cherstich , già a partire da questo aspetto riproduce uno trai peculiari meccanismi della scrittura di Thomas Ligotti, ovvero l’illusione di un patto fra lui e il lettore, qui spettatore. Le assurdità che i personaggi abitano con una consuetudine e un’alienazione del tutto paragonabili a quelle che sperimentiamo ogni giorno anche noi, ci spingono a cercare una visione grandangolare o microscopica: le differenze tra quella realtà e la nostra devono esserci, per forza.
I simboli collocati con parvenza di indizi, gli oggetti appena fuori contesto che attraggono l’attenzione e il tatto di chi ci si imbatte, tutto esorta all’astuzia: “Vieni” ci dice, “sei vicino, stai per comprendere, manca poco, coraggio”. Nello sforzo diamo per scontato che quella sia la voce dell’autore, che Ligotti sia lì con noi. Ma Thomas Ligotti non c’è. Ci siamo solo noi e la sua scrittura, due ingranaggi nel congegno che ha come unica funzione il concepimento dell’errore percettivo. Giusta e intelligente, la scelta di spostare il meccanismo dalla dimensione testuale a quella visiva dello spettacolo. Sin dall’inizio della rappresentazione (che iniziata, lo era già quando fissavamo il palco vuoto e dalle quinte giungeva un brusio apparentemente incidentale) modo e intenti vengono candidamente dichiarati: “fissa per sessanta secondi il punto al centro dello schermo”, recita la scritta burlona proiettata trai colori di un pannello. I colori scompaiono, resta solo il punto.
Roba sciapa come il jingle in sottofondo? Sarà, ma più tardi le cose e le persone inizieranno a sparire davanti ai nostri occhi proprio in virtù di quel fenomeno. Ci è stato spiegato, eppure impressiona, sconvolge e spaventa. Come non succedeva da tempo.
Dal jumpscare, verso un nuovo Grand Guignol
L’ambiente asettico del palco cambia, stanze e prospettive avanzano e si ritraggono nel movimento della macchina scenica. E se fossimo poco disposti verso certi elementi imprescindibili, dovremmo comunque arrenderci: lo stereotipo di un’infanzia nutrita dal latte degli incubi, stavolta funziona dannatamente bene. Colpisce, la stretta dell’oscurità intorno a Elsa Casini, senza chiedere concessioni. Ci ritroviamo a saltare sulla poltrona, jumpscare: qualcosa che nel cinema horror è ormai meno di un mezzuccio disonesto e facilone, ma che sorprendentemente riacquista senso a teatro. Effetto meccanico raggiunto attraverso la percezione, la materializzazione del mostruoso e il ragionamento di Nottuari, che privilegia il fattivo anche quando maneggia le citazioni. Non a caso, catalizzatore e chiave del passaggio dal letterario al visivo, c’è Julien Lambert.
Julien Lambert è un cascatore: “attore” non restituirebbe un millesimo di ciò che si sperimenta vedendolo sul un palco. Mentre la sua eleganza inizia a contorcersi, espressionismo e maniera assumono senso fisico. La macchina scenica si ferma, lo stupore si concentra su quel corpo impegnato a disattendere le supposte naturalezze dell’umano. Tendini, pelle, nodosi pallori che muovono verso l’inerzia degli oggetti: la sola e indubbia capacità non artificiale. Corpi e oggetti si imitano a vicenda; percezione e realtà, come trucchi nel campionario truculento di un nuovo Grand Guignol.
Evisceramenti e decapitazioni sono piacevoli per chi ama gli slasher movie e stuzzicanti quando si allestisce un Middleton con ardita cautela. Altra cosa è replicare lo sdegno, l’ipocrisia di chi pagava solo per gridare all’indecenza e trascinare la fidanzata via dalla platea, tenendola stretta per le nude estremità. Come far rivivere il disagio al pubblico di oggi? La drammaturgia per immagini di Fabio Cherstich tratta lo spettatore farmacologicamente con l’interazione dei suoni di Andrea Gianessi; ipnotizza col fastidio sonoro e guida gli occhi del pubblico perché il susseguirsi degli effetti illusionistici crei movimento, narrazione. Ben modulata la convivenza di stilemi cinematografici e oggetti in scena, asettici e anacronistici, veterotecnologici come nei racconti del Nottario, dove non compaiono mai innovazioni davvero contemporanee, ma è comunque smantellata la dicotomia uomo/strumento. Attori, oggetti, idee, scene, persone, linguaggio, sentimenti, fobie, fabbriche, cose, lettori e spettatori: che differenza fa, se nessuno di loro ha il controllo sul congegno? L’uomo che si alzava infuriato e lasciava la sala, era anch’egli ingranaggio del Grand Guignol. Nottuari rende ingranaggio la percezione di chi assiste.
La maschera del mostro, il volto dello weird
Ma nello spostamento dei dispositivi della scrittura alle dinamiche della rappresentazione, c’è un effetto collaterale: le parole di Thomas Ligotti restano nude, derubate della propria ragion d’essere dal lato visivo. Riversata la loro magia in un altro strumento, appena gli attori le pronunciano esse si rivelano per ciò che sono: ripetizioni, sintassi poco eleganti, eterni rimandi ai narratori che hanno instillato nel lettore ereditato da Ligotti la sensibilità simbolica e la strutturazione emotiva che sono l’humus del suo successo.
Francesco Pennacchia offre un emozionante crescendo nel monologo che incornicia alcuni passi de “La Medusa” ma più vigoroso è il tono espressivo più Ligotti viene smascherato. Quando Carolina Ellero mette in scena quella che è a tutti gli effetti la lettura di un racconto di Nottuario, i pochi gesti all’interno del contenitore trasparente in cui è imprigionata hanno maggior forza della storia stessa. La bravura degli attori, il modo in cui hanno interiorizzato quelle storie, non evita il depotenziamento dello scritto. Un intervento che riadatti ulteriormente il testo potrebbe risolvere, ma chi ama la narrativa di Ligotti perderebbe una lezione preziosa. Dopo il teatro sono tornato a casa e ho acceso la lampada della scrivania. Ho fissato la copertina di Nottuario, ma alla fine mi sono fatto coraggio e l’ho riaperto. Tra le pagine sgualcite, sotto alla maschera, un volto che prima non c’era. E faceva paura.
In weird, we trust.
Visto al Fabbricone di Prato, il 9/3/2023