RUMOR(S)CENA – FIRENZE – Parla del suo naso, Cyrano. E’ l’appiglio del suo flow, lo scudo e l’arma migliore di cui dispone. Sa che attrarrà il dileggio di chi lo sfida e allora glielo sbatte in faccia; perché naso, cazzo, spada, Cyrano ha già pronta l’allusione, la risposta in rima. Eppure a furia di guardarsi il naso, sono i suoi occhi che si incrociano, la vista gli si annebbia ed è così che vuole, perché a un palmo fuori dal suo naso c’è l’unica cosa che a Cyrano fa paura: l’amore. Che poi quel naso non è così lungo, anzi, non c’è nemmeno. Sarà Rossana a metterglielo sul viso, Rossana rassegnata, delusa. Rossana che ha capito che Cyrano deve morire, solo e sempre col suo naso.
La forza della drammaturgia, Cyrano deve morire la guadagna sul palco, fendente dopo fendente, gratuita e sudata come uno sfregio sulla faccia da spadaccino, nel duello tra insolenza e conformismo. Palco, campo di battaglia, stamberga, giardinetto di periferia: là sopra, pronto alla rissa, chi c’è? Ė Cyrano, Rostand? Michele Eburnea o Leonardo Manzan? Quando alza il cappuccio, di quel rapper si intravede appena il naso. Una mano scende alla vita, sotto la felpa cerca l’elsa, che è fatta di plastica e carbonio: il microfono, penna e pure spada.
L’inferno di Cyrano è chiunque gli sta intorno o peggio, seduto di fronte. Un’offesa per chi ha la schiena dritta e l’abisso al posto della bocca. Rara, la solidità e la correttezza di questo spettacolo che col filo(logico) cuce le sovrapposizioni e sente di doversi meritare ogni licenza. Leonardo Manzan non approfitta delle analogie concettuali e biografiche per togliersi sassolini dalle scarpe. Quando scaglia Cyrano contro l’establishment culturale, le logiche dei premi e della critica di oggi, sa bene che Arlecchino, conclusa la burla, scomparirà lasciandolo allo scoperto. Attacca e ci mette la faccia, non tanto per coraggio (che con un po’ di culo, a volte costa poco), ma per coerenza.
Se si è anche divertito, è del tutto incidentale e se qualcuno si è offeso, meglio per Cyrano e peggio per lui. Mostrando i panni sporchi a una platea che non è tenuta a interessarsi di problemi che eppure la riguardano, si assestano affondi che fanno vacillare per un attimo il baricentro dello spettacolo, altrimenti nitido per intenzioni e svincolato dagli altari come dai contraltari. Ma è così che farebbe uno spadaccino. Cyrano attaccherebbe, perchè a differenza di Don Chiciotte lui non ha le traveggole: i giganti travestiti da mulini a vento esistono. E applaudono, anche se sono parte del problema.
Lo warm up prevede uno scontro col pubblico, con i molti ragazzi in platea, che in parte erano preparati alla sfida, ma che ritrovandosi davanti ad una provocazione inaspettatamente dura, si gettano comunque nella baruffa a suon di barre con Michele Eburnea. Ben oltre i tre indizi, non una, ma una marea di prove: stiamo assistendo a qualcosa di sorprendente. Ci si potrebbe accontentare della signora che a fine spettacolo, esce dalla sala con le amiche: “Bello” dice, “…ma nella prima parte tutto quel rappare, volgarità gratuita!”. E tanto di cappello alla signora, per la padronanza: rappare, niente male.
Ma la vera scoperta è che in quel linguaggio, nell’universo espressivo della parola sul beat, i ragazzi ci credono davvero. Lo vivono con un trasporto, una competenza che non è solo moda. Per loro improvvisare rime, concepire all’impronta un mood per passione o per diletto, corrisponde a sapere dove si trova il Do sul piano nel 1800, al giro di La per chitarra durante l’occupazione del liceo, anno scolastico 76-77. Significa vivere il proprio tempo, sapendo che hai la musica dalla tua parte. E soprattutto, i ragazzi sanno riconoscere l’odore delle cazzate. Gli puoi strizzare l’occhio, ma non basta a ipnotizzarli. La musica qui non è chiamata in causa soltanto per svecchiare, non si limita a piazzare qualche YO col martello per trasformare il testo in una filastrocca in rima baciata.
Michela Eburnea affronta il clash con un’intenzione credibile, senza far lezioncine su cosa il teatro abbia da insegnare in fatto di jam, di guizzo, d’improvvisazione. Il suo Cyrano e il Cristiano di Giusto Cucchiarini sono caratterizzati con due differenti tipi di approccio e di flow: Cristiano il belloccio, gongola tra ripetitivi sincopati e dritture raggaeton, sventolando ritornelli in autotune alla Timbeland; Cyrano ha il tormento oldschool di chi plana e riprende quota, evitando gli atterraggi morbidi anche a costo di finire il carburante. La musica li rende tridimensionali e pronti allo sviluppo drammaturgico, come accadrà nel monologo di Cristiano prima del finale: musicale senza musica, emozionante nello sgretolarsi del tono complessivo. Una bellissima prova da parte di Giusto Cucchiarini, in quello che è stato il miglior momento della prima al Teatro di Rifredi.
In cima all’impalcatura metallica che occupa il palco, Filippo Lilli suona dal vivo gli strumenti e le partiture campionate degli autori Alessandro Levrero e Franco Visioli, che in tanta schietta vicinanza alle sonorità di ultima generazione, la goccia di medicina nel cucchiaio in realtà ce la mettono: la techno house delle basi non rinuncia all’eleganza e qua e là fa capolino una raffinatezza che è molto, molto da teatro. Ma accorgersene, cui prodest? So, trill. La storia del Cyrano va dritta al punto, basta raccontarla perché venga compresa. Ma più passa il tempo, più è facile comprendere che la protagonista è Rossana. Il filosofo e lo sciupafemmine, il rancoroso e il mellifluo, sanno soltanto essere. La colpa, il rimpianto di non aver fatto, sta sulle spalle di Rossana. E a Paola Giannini, Cyrano non deve morire chiede molto.
La sua Rossana ha il compito di maestra di cerimonia, scintilla che riavvia la storia. Non un’eroina, ma persona in carne e ossa che si dibatte per sfuggire al ruolo di oggetto che le è stato assegnato e che lei per prima ha accettato. Paola Giannini gestisce lo spettacolo con attenzione, affronta tutto misurando gli spessori e la ritmica in un triathlon, del quale si cura di non farci avvertire la difficoltà. Fila tutto liscio. Ma se qualche sbavatura salta all’occhio, lì sta anche una profondità espressiva che l’attrice sceglie di risparmiare affinché la rappresentazione si mantenga solida, coerente al netto delle variabili che stanno nella fisiologia del progetto. La protagonista di Paola Giannini abbandona il palco, gli antagonisti, la storia che non è riuscita a cambiare. Ma un attimo prima si volta, grazie a lei, Cyrano deve ancora morire.
Visto al Teatro di Rifredi, il 21/03/2023