Festival(s) — 16/05/2023 at 14:50

A Est di quale Ovest? Il teatro dei Balcani nel focus del Polis Teatro Festival di ErosAntEros

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RUMOR(S)CENA – RAVENNA – Meritato successo di critica e di pubblico per l’edizione 2023 del Polis Festival, ideato e diretto da Davide Sacco e Agata Tomšič -Compagnia ErosAntEros-. Il focus sui Balcani è stata un’occasione davvero preziosa e rarissima per incontrare i protagonisti di un territorio così vicino ma della cui storia e cultura conosciamo davvero pochissimo. Spettacoli sulla memoria della guerra firmati da regist§ italiane e francesi, oltre che da autori bosniaci, sloveni, croati, albanesi arricchiti di approfondimenti, dialoghi con gli artisti, con direttori di Festival, il tutto concentrato in una settimana, aperta purtroppo, dall’alluvione devastante del territorio ravennate e limitrofo. I ritardi, i disagi e le cancellazioni di treni dovuti all’imprevedibile e disastroso evento naturale non hanno scoraggiato il pubblico internazionale e i giornalisti, accorsi numerosi a tutti gli eventi dislocati tra il Teatro Alighieri, Teatro Rasi, Teatro Sociale, MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna e Artificerie Almagià. La perfetta organizzazione ha permesso di muoversi agilmente da uno spazio all’altro.

Questo festival ha davvero regalato emozioni fortissime nel ricordo di una guerra ancora impressa fortemente nella mente di tutti, a partire dalla straordinaria performance ENEMY (cross the Balkans) ideata espressamente per gli spazi del Museo MAR dal gruppo francese Zone-Poéme fondato da Mélodie Lasselin e Simon Capelle. Nelle sale comunicanti del Museo sono stati dislocati cocci rotti e abiti militari a ricordare che in ogni parte dei  Balcani da loro visitati nel 2022, ci sono ancora tracce evidenti di guerra, anzi di guerre perché queste si sono susseguite una dopo l’altra dal 1991, ognuna con la sua lingua, ognuna con la sua voce, ognuna con la sua ragione sbagliata: la Guerra d’Indipendenza slovena (1991); la Guerra in Croazia (1991-1995); la Guerra in Bosnia-Erzegovina (1992-1995); la Guerra del Kosovo (1996-1999).

Damned crediti foto di Ziga_Koritnik

Quelle tracce residue di esplosioni, di corpi divelti, di fosse comuni sono diventate la memoria comune dei popoli dei Balcani, ovvero anche la nostra memoria. L’idea della compagnia è quella infatti, di “uscire dalle frontiere dell’Unione Europea che ci garantiscono una certa stabilità, e andare a vedere fuori, il destino dei Paesi che sono prossimi all’ingresso nell’Unione Europea o che al contrario ne rimangono distanti a causa del gioco di partecipazioni e conflitti ancora in corso”. Come non ricordare a questo proposito, la famosa “instabilità controllata” del Kosovo che dal 1999 rende alcune città del Nord a maggioranza serba, come Mitrovica, ancora oggi focolai difficili da spegnere, motivo che allontana Kosovo e Serbia da una loro annessione alla UE.

Burrneshat

 La doppia e intensa coreografia dei corpi di Mélodie Lasselin e Léa Pérat simula azioni di guerra, di attacco o di difesa, parla del trauma del conflitto e porta dritto al cuore della tematica: a che punto è il processo di pace tra comunità rimaste così a lungo dentro una guerra fratricida? L’obiettivo, dice il collettivo è quello di “parlare universalmente di pace, creando un’opera che metta in discussione il concetto di nemico, di neutralità”. Attoniti dentro lo spazio del museo, seduti per terra, ascoltiamo la flebile voce della pace.

 Il minatore di Husino (Il mio passato è il tuo futuro) di Branko Šimić regista bosniaco specializzato in teatro documentario, è un’installazione-spettacolo davvero impressionante. Nello spazio del ridotto del Teatro Rasi, emerge dal buio una grande scultura fatta di piccoli specchi che rappresenta un uomo con un piccone e con un fucile creata dall’artista Marc Einsiedel. La scultura gira su un piedistallo rifrangendo luci colorate e spargendole in mille traiettorie che bucano il buio della sala. Questa esperienza multimediale-sensoriale dura 20 minuti e si basa sul racconto registrato a voce, di un evento accaduto 100 anni fa: una rivolta dei minatori di Husino a Tuzla, nella Bosnia-Erzegovina, contro le condizioni di lavoro e salariali. La voce riporta in vita la statua come se fosse un testimone vivente di un intero secolo fatto di soprusi, di schiavitù e di trasformazioni industriali e morali. I pezzi di vetro che lo compongono sono la Storia, in frantumi e ricostruita come un puzzle, perché “La Storia è isteria e ha fame, ha bisogno di cibo e il suo cibo siamo tutti noi”.

Burrneshat

È stato, poi, davvero uno shock rivedere con lo sguardo d’oggi lo spettacolo Dannato sia il traditore della sua patria (2010) di Oliver Frljic: nato in Bosnia-Herzegovina ma attivo tra la Slovenia e la Croazia, Frljic è uno dei principali registi della giovane generazione balcanica; prendendo a prestito come titolo, un verso dell’inno sloveno in scena al Teatro Rasi viene allestito un devastante squarcio della guerra nei Balcani attraverso ironiche sfilate di bandiere balcaniche indossate dagli attori a indicare la loro identità, insieme a scambi di lingue un tempo amiche, in seguito diventate divisive. Quello di Frljic è un teatro politico di grande forza, non a caso prodotto dal Teatro Mladlinsko di Lubiana, importante teatro d’arte sperimentale nato negli anni Cinquanta e considerato l’istituzione teatrale slovena (con annessa compagnia) più conosciuta all’estero.

Così il regista espone la sua dichiarazione estetica-politica in un’intervista a uno degli studiosi più attenti del suo lavoro, Tomaz Toporisic, già direttore del Mladinsko e drammaturgo per questa pièce: “Voglio che il teatro sia un generatore di cambiamenti sociali”. Lo spettacolo affronta il tema del nazionalismo, la complessa costruzione di identità balcaniche e adotta un linguaggio politicamente scorretto e fortemente provocatorio, con un vero assalto al pubblico, al suo essere protetto dal buio della sala e alla classe politica che governa il suo Paese. Lo spettacolo, come fu la guerra nei Balcani, è un susseguirsi di uccisioni, reiterate all’infinito: i corpi degli attori continuano a cadere sotto i colpi di pistola, a morire e a rialzarsi. I passaggi sulla guerra dei Balcani partono in modo non didascalico, dal crollo della ex Jugoslavia, dalla morte di Tito vissuta attraverso gli schermi televisivi da tutta la popolazione, alla guerra in Croazia e Bosnia, conducendoci fino al genocidio di Srebrenica, a Vukovar in Croazia e a Sarajevo in Bosnia-Erzegovina. La domanda è sempre la stessa: Quali meccanismi si celano dietro a un sanguinoso conflitto?

Sull’assedio e sul massacro dei novemila civili a Srebrenica nel 1995 da parte dell’armata serbo bosniaca è dedicato uno storico spettacolo di narrazione civile della straordinaria Roberta Biagiarelli, A come Srebrenica ospitato al Festival e che è stato proposto anche per le scuole. Toccante e profondo  lo spettacolo si interroga ancora oggi a distanza di 25 anni dal suo debutto, sulle ragioni di un genocidio: il dovere di raccontare tiene accesa la fiamma della memoria. La Biagiarelli è attrice, autrice, documentarista, progettista teatrale, e da anni approfondisce la tecnica del racconto legato a vicende sociali ed umane del nostro tempo.

Rimando all’intervista su ateatro.it da me fatta alla regista Simona Gonella in occasione del debutto dello spettacolo nel 1998. Da allora la Biagiarelli non ha mai smesso di essere coinvolta in progetti sulla ex Jugoslavia, non solo Srebrenica ma Sarajevo, con l’assedio interminabile (1992-1996): libri, film, mostre fotografiche oltre che spettacoli la pongono come una delle autrici e interpreti più vere di questo scorcio d’Europa. Mi piace ricordare Shooting in Sarajevo, volume fotografico (Bottega errante editore) da lei curato con Luigi Ottani. Shooting come fotografare ma anche mirare per uccidere, come fa il cecchino. Ottani ha inquadrato con il mirino della sua fotocamera dai luoghi dai quali i cecchini tennero sotto assedio la città, inquadrando le persone dalle stesse prospettive. Al libro segue lo spettacolo Pazi Snajper | Attenzione Cecchino di e con Roberta Biagiarelli e Sandro Fabiani.

Uno sguardo particolare merita lo spettacolo in prima nazionale, Vergine giurata (Burrnesha) con la regia di Erson Zymberi tratto dal testo del drammaturgo del Kosovo Jeton Neziraj, uno delle voci più autorevoli del teatro politico contemporaneo. L’attività di Neziraj ha avuto un crescendo di riconoscimenti nell’ultimo decennio, al punto che l’Italia ha ospitato i suoi workshop di scrittura, e spettacoli tratti dai suoi lavori: dal Teatro Koreja di Lecce, al Festival Vie di Modena, al Piccolo Teatro di Milano, al Festival Inequilibrio di Castiglioncello fino al Mittelfest che sta coproducendo i suoi lavori più recenti.

Il testo Vergine Giurata è risultato vincitore del programma Eurodram che ne ha previsto la traduzione (a cura di Kamela Guza) e la pubblicazione a seguito di una selezione del comitato scientifico coordinato da Michele Panella, drammaturgo e regista. La trama vede una giovane studiosa inglese di tradizioni albanesi, porre all’attenzione di un pubblico accademico a Londra, il fenomeno delle Vergini giurate da lei conosciuto tramite una rappresentante in carne e ossa. Si tratta di una tradizione ancora parzialmente viva nelle zone di montagna dell’Albania, del Kosovo e del Montenegro: le donne, compresse in una società patriarcale e pater lineare che non attribuisce loro alcun potere, hanno una via d’uscita dall’imposizione di un matrimonio non voluto, accettando di diventare a tutti gli effetti, donne celibi con abiti maschili e acquisire diritti di proprietà e eredità oltre che uno status sociale migliorativo, ma con gli ovvi limiti imposti dal cambiamento di genere; spesso tuttavia, non si tratta esattamente del frutto di una libera volontà della donna; per esempio nel caso di un nucleo familiare che sia rimasto solo con componenti femminili questa scelta del cambiare genere diventa un obbligo per la sopravvivenza della comunità, una “exit strategy” come la definisce Neziraj nel testo, una via d’uscita da situazioni di vendette o conflitti. Una prima distorsione sottolineata da Neziraj, è l’incapacità di comprendere profondamente questo fenomeno fuori dall’Albania e leggerlo come un prodotto di una società primitiva.

Edith alla fine della sua conferenza, viene avvicinata da una drag queen di nome Julian che vuole assoldare la vergine giurata per “fare business” nel suo locale a luci rosse a Soho. La vera burnesha (di nome Sos) ha fatto il solenne giuramento di voler diventare uomo per sopravvivere, per aiutare la famiglia; nello spettacolo londinese deve indossare una maschera che non le appartiene perché le viene suggerito di mentire e tradire la sua storia, onesta e vera di vergine giurata. Il mondo commerciale è pronto a ingurgitare anche questo nuovo “frutto proibito” in una rozza e imprecisa ricontestualizzazione occidentale del fenomeno, tradendolo nel profondo. Sos ritornerà in Albania facendo però, trapelare una difficoltà emotiva ad esporre i propri sentimenti e le proprie pulsioni; non è chiaro quanto questa sua decisione di diventare uomo per ragioni di sopravvivenza, abbia anche influenzato la sua vera identità e natura sessuale.

Lo spettacolo è stato davvero ben organizzato dal regista Erson Zymberi, direttore del Teatro di Gjilan in Kosovo: gli attori recitano nello spazio di una passerella collocata in mezzo al pubblico, seduto da una parte e dall’altra parte di questo stretto rettangolo di scena arricchito di luci che amplificano la storia, in assenza di una vera e propria scenografia. Da una parte c’è Soho e dall’altra un non ben identificato villaggio al Nord dell’Albania. I gesti, le coreografie, le parole degli attori (che hanno raccolto un plauso unanime del pubblico) accadono sempre davanti a un microfono dove i personaggi si dichiarano e si confessano. Un’ambiguità corre lungo tutto lo spettacolo: chi  tra tutti avrà scelto davvero liberamente la strada del cambiamento di genere?

Neziraj è al suo secondo testo dedicato alla comunità LGBTQ+; il precedente 55 SHADES OF GAY– Balkan spring of sexual revolution (2017) ebbe come effetto quello di promuovere indirettamente a Prishtina il primo Gay Pride, aprendo le porte a una tema considerato tabù per il Kosovo. Nel 2007 una delle autrici albanesi più rappresentative della letteratura dell’esilio Elvira Dones, aveva scritto in italiano un romanzo intorno a cui si è creata in Europa una sorta di aura esotica: diversamente dal romanzo della Dones, la tematica descritta da Neziraj non è quello dell’integrazione della burnesha in una società capitalista né la sua uscita da una presunta marginalizzazione. Nell’intervista Neziraj ci spiega che non c’è alcuna relazione né possibilità di comparazione tra i due mondi immaginati nella finzione teatrale: la funzione della burnesha è specifica, storicamente definita e collocata in una determinata cultura che le attribuisce un ruolo sociale ben preciso; la vergine giurata è parte di una tradizione conservativa, dentro una società che avanza molto lentamente. Non era affatto intenzione dell’autore vedere questo fenomeno alla luce della fascinazione del “primitivismo” come è stato letto in Occidente: “Come sempre nei miei lavori non sono interessato al tema in sé ma al significato politico della cosa, alla struttura di potere dominante, ai media, al business”.

Non possiamo non ricordare che il Festival si è aperto con la nuova produzione di ErosAntEros, Libia, spettacolo multimediale con uso di animazione video in scena e musica dal vivo (Bruno Dorella) di grande forza e impatto a restituire il racconto della giornalista Francesca Mannocchi pubblicato in forma di graphic novel da Gianluca Costantini.  Dal report della Mannocchi sulla Libia dedicato alle gravose questioni del traffico dei migranti, delle carceri, delle milizie armate che gestiscono il Paese dopo Gheddafi, delle condizioni devastanti della popolazione, il disegnatore attivista Costantini crea un bellissimo esempio di graphic journalism. Francesca Mannocchi, interpretata brillantemente da Agata Tomšič, è la voce narrante dello spettacolo: una testimone che passa attraverso i rivoli della storia della Libia, dalla guerra civile del 2011 per entrare in un centro di detenzione di oggi, tra 1200 persone malate e senza acqua, a raccogliere testimonianze e accuse. Per conoscere la Storia dalle parole di chi l’ha subita.

Visti dal 4 al 6 maggio 2023 al Polis Festival di Ravenna

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