RUMOR(S)CENA – SIRACUSA – Hanno un denominatore comune, il tema della violenza, le due tragedie in cartellone per la 58° stagione di spettacoli al Teatro Greco di Siracusa, Prometeo incatenato di Eschilo e Medea di Euripide, tema giocato tuttavia su piani diversi tra loro: nell’una, quello divino in un braccio di ferro tra potenti, nell’altra, quello umano tra ambito familiare e sociale. Empatia e ferocia si intrecciano nella vicenda di Prometeo, il Titano che si è attirato l’odio di Zeus per aver protetto e sostenuto gli esseri umani e in particolare per aver donato loro il fuoco sottraendolo con l’inganno dall’Olimpo. La punizione è terribile: Prometeo viene incatenato a una rupe nella lontana Scizia, esposto alle intemperie e all’aggressione di un’aquila che gli divora il fegato.
L’ambientazione in cui Leo Muscato, regista dello spettacolo, colloca la vicenda è metaforica: un paesaggio desolato, una periferia industriale, a cui si accede attraverso un binario morto sul quale scorre un carrello ferroviario. La ruggine che corrode ogni cosa denuncia la vetustà di quell’impianto in disuso: una ciminiera crollata al suolo, una che ancora svetta nella sua inutilità, una turbina dismessa e tubi ormai inservibili appaiono retaggio di una tecnica obsoleta e aggressiva al punto da cancellare ogni elemento naturale.
Prometeo arriva a piedi, dietro al carrello che trasporta Kratos (Potere) ed Efesto, preceduti da Bia (Violenza), le mani in catene come un forzato, il collo imprigionato in una gogna di ferro, un cappuccio a coprire il volto. Gli dèi al servizio di Zeus lo inchiodano alla ciminiera, condannato alla solitudine, privato della possibilità di parlare con gli esseri umani che egli ha protetto. Una punizione impietosa per lui che ha avuto pietà dei mortali. In successione arrivano al suo cospetto solo divinità: le Oceanine, il loro padre Oceano, Ermes, minaccioso messaggero del sovrano degli dèi, e una donna, Io, che non ha più nulla di umano, trasformata com’è in vacca da Era, gelosa dell’amore di Zeus per quella giovane mortale che ora è costretta a vagare peregrina per il mondo, spinta dalla puntura di un tafano. Suoni graffianti che lacerano l’aria e luci crepitanti segnalano a tratti la presenza remota ma incombente di Zeus.
Che cosa incarna Prometeo? La giusta ribellione al dispotismo di Zeus o il suo è un atto di hybris, di superbia, nell’essersi contrapposto alla volontà del re degli dèi? Nella lettura di Muscato, lo scontro tra il Titano e Zeus è quello tra l’eroe che difende i più deboli e il tiranno che opprime chi si oppone al suo potere. Alessandro Albertin, nella parte del protagonista, presta al personaggio accenti di commossa sollecitudine per la sorte degli umani, come un padre preoccupato per la sorte dei propri figli, ed esprime il proprio dolore e l’odio nei confronti del suo persecutore senza indulgere a patetici birignao o a grida scomposte. Esposto al freddo che sferza il teatro greco dopo il tramonto, immobile con le braccia incatenate in alto, offre una prova attoriale che contempera forza e misura, interpretando al meglio la bella traduzione di Roberto Vecchioni: una scrittura che smussa il potente turgore eschileo con un linguaggio di moderna efficacia e con immagini di poetica suggestione, come “misero burattino nell’aria devo bere la gioia maligna dei nemici” o “le creature dalla breve luce” per definire la condizione dei mortali.
Ai piedi di Prometeo, le Oceanine, a differenza del loro padre, sono empaticamente solidali con lui. Ne compiangono la sofferenza e gli offrono consolazione fino al punto di voler condividere la sua stessa sorte quando Zeus con un cataclisma lo precipita nell’abisso. Movimento e canto (frutto di una fertile collaborazione tra le musiche di Ernani Maletta, la direzione del Coro di Francesca Della Monica e le coreografie di Nicole Kehrberger) vanno all’unisono in un ensemble dove le voci si espandono con ampiezza di timbri e il dinamismo coreutico viene ampliato dallo strascico dei morbidi vestiti grigio azzurri che richiamano l’iconologia delle Sirene (creazione di Silvia Aymonino).
Empatia dimostrano anche Efesto (Michele Cipriani), il dio amico che malvolentieri esegue i crudeli ordini di Zeus, e Io (Deniz Ozdogan), la cui sofferenza la rende compartecipe della sorte del Titano, mentre Oceano (Alfonso Veneroso) attribuisce alla sua rabbia e alla sua superbia indomabile le sventure che lo hanno colpito; una diagnosi condivisa da Ermes (Pasquale di Filippo), “leccapiedi di Zeus”, che nel finale gli riferisce con insolenza l’ultimatum minaccioso del dio. Ma nulla può fiaccare la determinazione di Prometeo deciso a non venire a patti col tirannico re dell’Olimpo e pronto a sprofondare nel Tartaro con un ultimo grido di dolore contro l’ingiustizia.
Medea
Un coro di voci bianche con indosso candide tuniche a rappresentare l’innocenza dei figli di Medea apre lo spettacolo attraverso una sacralità sciamanica che rimanda al mondo ancestrale della Colchide da cui proviene l’eroina. Un mondo magico, ancorato alla natura, reso tangibile sulla scena dalla maschera indossata da Medea: quella di un rapace dal becco adunco, completata da una coda a strascico di piume bianche, azzurre e nere. Il regista, Federico Tiezzi, esplicita così la maestosità e la forza che caratterizzano il personaggio e che accompagneranno le sue azioni future. La Medea a cui dà vita Laura Marinoni si nutre di doppiezza e ferocia (rese con precisione filologica ma scorrevole efficacia nella traduzione di Massimo Fusillo) trasmigrando da supplice ad assassina con atteggiamento regale, supportata in questo dagli abiti di scena – ne cambia tre – sfarzosi, fino alla aerea fuga trionfale splendente di luce.
Le donne del Coro, con lei solidali, vestono abiti monocromi, di un azzurro che richiama le tute da lavoro di creature sottomesse, avvezze ad obbedire. Attingendo l’acqua da secchi metallici, puliscono freneticamente il pavimento ingabbiate in un ruolo subalterno che non lascia loro nessuna autonomia. Sebbene Medea contrapponga la propria sorte alla loro, affermando che vivono una vita comoda, in compagnia delle persone care, appaiono essere prone al volere altrui in una condizione di inferiorità. Se nel corso dell’azione la loro presenza viene molto ridotta dallo sfoltimento del testo, nel finale riacquistano peso scenico: chine a terra, con i loro stracci tingono il pavimento del sangue versato, dando concretezza all’orrore.
Lo schema geometrico su cui è disegnata la scena, bianca con luci a led e arredi neri, suggerisce un’ambientazione borghese che – così dichiara Tiezzi – evoca la violenza rappresentata nella drammaturgia di Ibsen o Strindberg. L’ingresso di Creonte (nel quale Roberto Latini insinua doppiezza) indica la linea interpretativa dello spettacolo: come denuncia la sua maschera di coccodrillo, la stessa che calzano le guardie al suo seguito (di contro i bambini, piccole vittime inconsapevoli, indossano bianche teste di coniglio), il re è l’esponente simbolico di una società neocapitalista, utilitaristica e feroce. Il suo attaccamento alla patria e la sua preoccupazione di padre assumono il senso di vuote parole, pronunciate con ostentazione – lo denuncia anche la postura – ma non sentite. Anche Giasone (il mellifluo e sfrontato Alessandro Averone) si pone sulla stessa linea con il cinismo e la malafede che lo connotano nel testo euripideo; i vantaggi che prospetta a Medea sono in realtà funzionali al proprio egoistico interesse, tipico di una borghesia concentrata sul raggiungimento di ricchezza e potere.
L’impostazione registica fa sì che il conflitto tra Medea e Giasone non si esaurisca, dunque, nello scontro tra due individui e il divergere delle loro passioni, ma si giochi tra due civiltà contrapposte, quella arcaica, primordiale della Colchide e quella “postindustriale” di Corinto, regolata da spietate leggi economiche e politiche: una dicotomia tra natura e società che si materializza nello sfondamento della scena, il salotto borghese, aperto visivamente sul boschetto retrostante.
Alle atroci morti di Creusa e Creonte raccontate dal Messaggero (un’efficace Sandra Toffolatti), segue l’infanticidio segnato dalle urla di dolore dei bambini e dal dispiegarsi di un canto lirico stridente: la musica di Silvia Colasanti, punto di forza dello spettacolo, che mette in relazione György Ligeti, Gustav Mahler, Franz Schubert, e Heitor Villa-Lobos, pone un potente sigillo al percorso tragico.
Visto al Teatro Greco di Siracusa l’11 maggio
Il cast di Prometeo: Alessandro Albertin (Prometeo), Silvia Valenti (Bia), Davide Paganini (Kratos), Michele Cipriani (Efesto), Alfonso Veneroso (Oceano), Deniz Ozdogan (Io), Pasquale di Filippo (Ermes). Il coro delle Oceanine è formato dalle corifee Silvia Benvenuto, Letizia Bravi, Gloria Carovana, Maria Laila Fernandez, Valeria Girelli, Elena Polic Greco, Giada Lorusso, María Pilar Pérez Aspa e Silvia Pietta e dalle coreute Giulia Acquasana, Marina La Placa e Alba Sofia Vella. La drammaturgia è di Francesco Morosi, le scene sono di Federica Parolini, i costumi di Silvia Aymonino, le musiche di Ernani Maletta, la direzione del coro di Francesca Della Monica, le coreografie di Nicole Kehrberger, le luci di Alessandro Verazzi; Elena Polic Greco è la responsabile del coro.
Visto al Teatro Greco di Siracusa il 12 maggio
Il cast di Medea: Laura Marinoni (Medea) Debora Zuin (Nutrice), Riccardo Livermore (Pedagogo), Roberto Latini (Creonte), Alessandro Averone (Giasone), Luigi Tabita (Egeo), Sandra Toffolatti (Il Nunzio); Francesca Ciocchetti (prima corifea) e Simonetta Cartia (prima coreuta e direttrice del coro). Il coro è formato da Alessandra Gigli, Dario Guidi, Anna Charlotte Barbera, Valentina Corrao, Valentina Elia, Caterina Fontana, Francesca Gabucci, Irene Mori, Aurora Miriam Scala, Maddalena Serratore, Giulia Valentini e Claudia Zappia. I figli di Medea saranno interpretati da Matteo Paguni e Francesco Cutale. Nel coro anche gli alievi dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico: Jacopo Sarotti, Alberto Carbone Carlo Alberto Denoyè, Sebastiano Caruso, Moreno Mondì, Andrea Bassoli, Alessandra Cosentino, Gaia Cozzolino, Sara De Lauretis, Lorenzo Ficara, Leonardo Filoni, Ferdinando Iebba, Althea Mara Luana Iorio, Denise Kendall-Jones, Domenico Lamparelli, Federica Leuci, Emilio Lumastro, Arianna Martinelli, Alice Pennino, Edoardo Pipitone, Mariachiara Signorello. Le scene sono di Marco Rossi, i costumi di Giovanna Buzzi, il disegno luci di Gianni Pollini, maestra del coro è Francesca Della Monica, arrangiatore coro e voci è Ernani Maletta, le musiche originali del coro e del prologo sono state composte da Silvia Colasanti con la collaborazione del Coro di voci bianche del Teatro dell’Opera di Roma.