RUMOR(S)CENA – LAMPEDUSA – Elena Bellei ci regala un romanzo nato da interviste a Lampedusa. È un tema urgente e tragicamente attuale quello con cui si misura l’autrice nel suo ultimo libro: il tema delle migrazioni, trattato con cura e sincera dedizione, frutto di un viaggio a Lampedusa e a Parigi, dove la scrittrice ha raccolto testimonianze diventate poi materia per il romanzo. Non dargli un nome (pubblicato da Incontri), ci racconta una storia coinvolgente a cui si aderisce con urgenza, benevolenza e anche speranza. Narra la storia di Jumelle e di suo fratello Thiam che partono da un villaggio del Centro Africa alla volta dell’Europa.
Attraversano il deserto, si perdono e si ritrovano lungo la rotta che dalle acque del Mediterraneo conduce al canale Saint Martin di Parigi. La voce narrante è quella di Lucia, ostetrica, che visita le donne che arrivano dal mare. Conosce le loro vite attraverso i corpi gravidi e ci ricorda che la pietà riservata agli umani ha un peso diverso per uomini e donne. Da Lampedusa – dice Lucia – passa una linea di saturazione, dove si spingono gli estremi fino a toccarsi. L’energia splendente della vita e i segni delle cicatrici. Lo stesso pezzo di terra tiene insieme l’eccitazione estiva, quando si fa l’amore sugli scogli, e la storia di Jumelle che portava il figlio di uno stupro.
Il racconto isola, nella massa anonima, uomini e donne con un nome e un volto. Sottratti all’indifferenza statistica e restituiti alla loro dignità di individui, lasciano intravedere la luce del riscatto. Un racconto, questo, che non ha solo un valore letterario, ma anche profondamente etico. L’autrice riesce a fare qualcosa davvero importante perché la “questione migranti” la si affronta di testa, idealmente e politicamente, con numeri, dati, inchieste, col cinismo di destra o con l’indignazione di sinistra (non si sa quanto profonda).
L’autrice, grazie ad un titolo che non è solo splendido ma è anche una dichiarazione poetica, li ha resi persone, destini, carne viva, esattamente come ha reso reale un luogo che è solo “da sbarco” e “da tragedia”, e che invece diventa metafora di una meraviglia “sporcata” dal dolore, trasformando anche chi ci vive e incontra un male senza fine, in persone col nome, quindi vere, che non puoi più far finta di non vedere. Facendo questo Elena Bellei hai dimostrato una verità nota ma sempre preziosa: che le cose acquistano nuovo senso quando diventano storie. Di questa storia è apprezzabile anche la struttura polifonica, che corre da un personaggio e l’altro, moltiplicando luoghi e lingue, aprendo più domande che risposte, come se si provasse ad afferrare una verità che continua a scivolare via, perché troppo insensata e disumana.
Si nota l’alternanza, normalmente difficile ma che l’autrice fa funzionare molto bene, fra bellezza e brutalità. E ancora l’alternanza nella descrizione, di aulica poesia e improvvisa tenerezza, fra ciò che ributta nel disumano e quello che accende speranza e futuro. Restano lontane le pagine di Non dargli un nome dalle connotazioni più retoriche, ponendo l’attenzione alla dimensione intima dei protagonisti, migranti e non, e riportando le loro esperienze in modo nitido ed essenziale. Il romanzo costruisce passo passo un rassicurante Happy end che sa di salvezza, per poi distruggerlo di colpo, per ricordarci che viviamo un tempo d’orrore.