RUMOR(S)CENA – TORINO – Un’appassionata parabola sull’amore e una inquietante analisi socio-antropologica sull’identità etnica. Un testo sconvolgente, pubblicato in Francia nel 2018, ma messo in scena già alla fine del ’17 (cioè ben prima dell’ultima ripresa del feroce contrasto fra Hamas e Israele), che richiama tuttavia, inevitabilmente, i fatti che stanno sconvolgendo il Vicino Oriente, e che hanno riempito le pagine dei quotidiani nelle ultime settimane. L’autore, Wajdi Mouawad, libanese di nascita (1968), formatosi nel Québec e naturalizzato francese, non è particolarmente noto in Italia, pur avendo ottenuto in Francia diversi premi prestigiosi. In particolare l’opera (in originale Tous des oiseaux), mai tradotta in Italia prima d’ora, ha conseguito il Grand prix de littérature dramatique nel 2019 e il Prix Transfuge du Meilleur texte de théâtre nel 2018
Prima di accennare ai contenuti del lavoro, prodotto dalla compagnia torinese “Il mulino di Amleto”, TPE – Teatro Piemonte Europa, Elsinor Centro di Produzione Teatrale e Teatro Nazionale di Genova è doveroso tributare un riconoscimento alla regia di Marco Lorenzi che, in stretta collaborazione con lo sceneggiatore Lorenzo De Iacovo, la traduttrice Monica Capuani, e lo scenografo Gregorio Zurla, serve con intelligenza un testo complesso e articolato, con azioni che si dispiegano lungo un ampio arco temporale, costellato da colpi di scena, di situazioni che rovesciano anche i caratteri che l’autore sembrava aver suggerito, in prima battuta, per alcuni personaggi.
Quasi per contrasto, la scenografia è di estrema semplicità: pochi tavoli, qualche lettino d’ospedale e un imponente, pesante muro mobile. Sarebbe banale tentare di dare un significato a un oggetto di per sé ricco di polisemie simboliche. All’inizio serve per leggervi le didascalie del testo , ma anche per proiettarvi in simultanea le battute in lingua straniera che lo costellano: tedesco, ebraico, arabo. Frasi scritte che, con una brillante intuizione della regia, sembrano permanere (sfocate) sul muro, come su una lavagna mal cancellata, quasi a denunciare l’ingombrante persistenza della parola nella memoria e nella coscienza di chi la pronuncia – e di chi l’ha ascoltata.
Ma quello stesso muro, che viene spostato a mano da attori in quel momento non impegnati nell’azione teatrale, ha un suo importane ruolo drammaturgico: separa e giustappone scene e ideologie; dolorosi contrasti e pregiudizi etnici e religiosi, sui quali l’autore si direbbe non voglia prendere posizione, ma di cui, a un tempo, denuncia l’insensatezza. La tormentata storia d’amore fra l’israeliano Eitan e l’araba Wahida sembra avere un lieto fine, così come sembrano scioglierci i complessi nodi emotivi che legano i protagonisti, ma al prezzo di un ulteriore lutto e dolore.
Oltre ai due protagonisti e alla complicata famiglia del giovane Eitan (sostanzialmente laico e razionalista, ma non privo di una sorta di un misticismo scientifico), rappresentata in momenti storici diversi, il testo prevede due specie di personaggi coro. Uno è Wazzân, un giureconsulto arabo del XVI secolo, oggetto della tesi di laurea di Wahida, che interferisce, a volte come evocato da un mondo lontano, distillando in arabo classico perle di saggezza sulle sue vicende, che lo accomunano a quelle degli altri personaggi, cui sembra, peraltro, di partecipare emotivamente.
L’altra e la soldatessa Eden (il Paradiso perduto: anche per lei, come per altri personaggi, nomen omen), la cui iniziale arroganza razzista e nazionalista verso Wahida si stempererà successivamente, dopo un imprevisto momento di confidenza fisica. A lei l’autore affida quello che si direbbe il suo pensiero: una riflessione disperata, ma solo apparentemente rassegnata, sui destini dei due popoli, con parole che lasciano il segno.
“Siamo come lo specchio impossibile di un sogno assassinato tanto tempo fa […] E allora è guerra! Una guerra che durerà ancora mille anni! È una fossa comune, e dobbiamo saltarci dentro perché siamo tutti in lutto per lo stesso sogno perduto, un sogno che non è mai stato pianto. Quello di vivere insieme, tra cielo e mare, di metterci a tavola insieme e invitare gli dèi per festeggiare le nozze di Eitan e Wahida e poi costruire una città comune con le porte sempre aperte sui nostri due orizzonti. Quel sogno è morto, insanguinato, eppure bisogna ricominciare a crederci, per non dover tremare più quando ci ritroviamo faccia a faccia o quando la pelle di uno tocca la pelle dell’altro. Ecco perché, anche se è un’impresa disperata, una scommessa persa in partenza, bisogna costringere chi sta zitto a parlare, e bisogna fare chiarezza sulla Storia!”
Splendidi gli attori, di varia provenienza etnica, che hanno, con evidenza, introiettato i loro personaggi attraverso un approfondito lavoro di preparazione durato un paio di anni, e che ne governano con equilibrio e maestria professionale le dinamiche, le pulsioni apparentemente contraddittorie, o addirittura sconvolgenti, quando non gli eventi traumatici. Su ognuno di loro ci sarebbe da scrivere un intero saggio, a cominciare dai due giovani protagonisti. Ma mi limito a citare la Leah di Irene Ivaldi, a un tempo spietata e amorevole, come le terribili yiddische mame della tradizione aschenazita, o la Norah di Rebecca Rossetti, teutonicamente fiduciosa nella potenza della psicologia, nella cui pratica è ferrata. Preferisco però chiudere con l’epigrafe che Wajdi Mouawad ha tratto dalla grande letteratura greca, di cui è un profondo conoscitore.
CREONTE Un nemico, anche dopo la morte, non diventa mai un amico.
ANTIGONE Io sono fatta per amare, non per odiare.
Sofocle, Antigone
Visto al teatro Astra di Torino il 23 novembre 1923