Recensioni — 21/03/2024 at 08:50

Re Chicchinella, prova d’autore di Emma Dante

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RUMOR(S)CENA – PICCOLO TEATRO MELATO – MILANO –Non è la prima volta che Emma Dante si misura con le fiabe di Giambattista Basile – e, anche in Re Chicchinella, in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano, dall’8 al 28 marzo 2024, torna a dare sfoggio di tutta la sua maestria.

Passione Basile

Se pensiamo ad Emma Dante, pensiamo ad un’artista poliedrica. All’intensa attività teatrale, infatti, affianca regie liriche e cinematografiche, ma anche favole per adulti e piccini e romanzi. Riecheggiano i temi a lei cari: la famiglia come microcosmo sociale (spesso onirico e magico, ma iper realista e crudo al tempo stesso), il contesto siciliano o comunque meridionale, la freudiana liason vita/morte, eros/thanatos, l’attenzione per le disuguaglianze sociali e di genere e la demistificazione del potere, solo per citarne i più caratteristici. La sua poetica, asciutta ma estrema, s’ispira a Kantor e fa del corpo dell’attore – ivi compresa la sua vocalità, nella sincopata e talvolta rude musicalità del dialetto – materia viva e pulsante, rivelandosi, spesso, il reale soggetto dello spettacolo.

RE CHICCHINELLA ®MasiarPasquali

Ecco, tutto ciò diventa di un’evidenza quasi palpabile, quando incontra situazioni a Le Sorelle Macaluso o, appunto, il surreale incanto de Lo cunto de li cunti di Basile. Così, dopo La Scortecata (2017) e Pupo di Zucchero (2022), torna a misurarsi con un’altra delle favole dell’autore seicentesco. E ‘A Papera si declina in Re Chicchinella – simile, nella trama, ma dalle amplificate potenzialità fisico/simboliche.

La favola: un racconto da bambini per colpire il fanciullino

Intanto, acuta è la scelta. In un mondo che bercia e si accapiglia per qualsiasi inezia in sempiterni  talk su un’attualità spesso becera e insignificante, scegliere la favola significa decidere di non attardarsi sull’aleatorietà di questo o quel fatto di cronaca. È estrarne invece l’universale individualizzato e soffermarsi su quello, incarnandolo in una cornice così surreale, da essere esente da ogni tentazione all’hic et nunc. Far ricadere la scelta proprio su Basile, poi, è decidere di ammantare di poesia barocca, facendo deflagrare, nel pur risibile orpello di una lingua desueta ma non per questo meno esplicita, tutto il potenziale mistificatorio di una satira inevitabilmente sottile.

E questo libera. Così, se la Dante vuol richiamare l’attenzione su opportunismo e falsità nelle relazioni anche familiari, sulla mancanza di empatia – meno che mai compassione… -, nemica giurata dell’avidità, cosa c’è di meglio che andare a rispolverare una favola, piuttosto che estrapolare l’ennesimo fatterello di cronaca? Su questo, chissà, i soliti leoni da tastiera avrebbero sollevato oziosi polveroni; al contrario, la favola, simulata bagatella, ha la singolare virtù di non esser presa troppo sul serio, riuscendosi ad insinuarsi, proprio come la chicchinella dello spettacolo, nel più profondo delle viscere – o della coscienza.

RE CHICCHINELLA ®MasiarPasquali

Re Chicchinella: lo spettacolo

Alla fine, cosa racconta questo Re Chicchinella? Apparentemente, poco o nulla.

Dice di Re Carlo III d’Angiò, re di Sicilia e di Napoli (ed una sfilza di altri titoli e titoletti nobiliari da renderlo per ciò stesso ridicolo), uno di quei sovrani ricordati più per gli sperperi che per i meriti. Al ritorno da una battuta di caccia – ce lo narra direttamente il protagonista -, colto da un’impellente bisogno fisiologico, agguanta una gallina, che credeva morta, per farne pezza da cul – recita Sua Maestà. Viva e vegeta, la bestiola gli si insinua invece nelle viscere, ingravidandolo.

Inizia così quella che lui stesso piange come la sua nigra fine, fatta non solo dell’umiliazione di defecare uova d’oro, ma degli inauditi spasmi, che accompagnano l’operazione e dell’ancor più dolorosa constatazione dell’opportunismo della sua corte. Cosa, in fondo, se non una bagatella, con tutto l’intuibile portato ironico, a cui si presta la crassa vicenda? Eppure come in Re Carlo tornava dalla guerra – analogo incipit, ancorché differenti, il bisogno fisiologico e l’epilogo -, proprio per la sua apparente lontananza e risibilità, diventa zona franca d’ironia – in De André – e, qui, fors’anche di satira. Ma, soprattutto, qui diventa prova d’autore, mostrando come sia possibile trasformare una novella popolare dal sapore crasso e dalla sapienza proverbiale, in uno spettacolo a tutto tondo.

RE CHICCHINELLA ®MasiarPasquali

Prova d’a_u/t_tore

Così, se pur la regista ha a cuore le tematiche trattate e quel modus di porgercele che ne è la degna cornice, quel che colpisce è lo svolgimento perfetto dello spettacolo.

Ecco: Re Chicchinella è soprattutto uno spettacolo ineccepibile – tecnicamente e filosoficamente. Impossibile non essere abbagliati dalla prova fisica e attorale del Re Carmine Maringola. Giocato fra dorso nudo e amplio gonnellone/nido, glielo vediamo costantemente impresso nella carne – nonché tradito ora ed ora esplicitamente gridato nella sfaccettata vocalità – tutto il dolore, fisico e morale, per la sua nigra fine. E non ci si riferisce solo alla potente plasticità di quel ventre, che, scavato dai morsi di una fame auto imposta, magicamente si gonfia, a ridosso della deposizione dell’uovo. Tutto il suo fisico duole e la prestanza delle forme rende ancora più sonoro lo smacco per quella sua potenza impotente (metafora, chissà, nell’originale di Basile, della dinastia al tramonto).

Di non minor efficacia è la prova fisica degli altri attori, che, gallinaceo coro di composte prefigurate prefiche nella scena iniziale (con quei repentini movimenti del capo, ora ad allungare verso l’alto, ora subitaneamente a volgersi a destra e a sinistra, proprio come galline), con la stessa tonalità, in fondo, si ripropone nella veglia funebre di chiosa. Soprattutto, non perde mai la sua cifra fisica “starnazzante”. Riuscitissime e totalizzanti, le scene corali di corte, dove ciascuno e tutti, damigelle e paggi, non tradiscono mai la metafora – ora in gesti ripetuti in uno straniante e comico loop da contagio, ora in dondolanti camminate da cocottes, ora in gesti singoli, ma dalla sorprendente efficacia d’insieme. E l’allusione satirica sociale non ci abbandona.

Altro elemento preponderante, all’interno di uno spazio scenico, che ha il rigore freddo e spoglio della scatola nera, è la capacità dei pochi oggetti di scena – ivi compresi i costumi e gli elementi sonori – di irrompere con una prepotenza creatrice di mondi. Vestiti della sola calza maglia color incarnato e con una retina sui capelli, quasi ad azzerarne le identità, uniformandoli, tutti gli attori entrano in parte in base al costume. Essenzializzato in elementi basici come nel caso delle strutture a supporto di ampie gonne, che esistono solo nella nostra immaginazione, o declinato come nei costumi severi (per paradosso, i soli reali, ad eccezion fatta del vestito bianco effetto gallinella della capricciosa infanta), davvero qui è l’abito a fare il monaco. Non a caso, il solo che resterà totalmente nudo, privato di abito, retina e qualsiasi altro orpello, sarà proprio il Re – o, meglio, la sua carcassa -, abbandonato, in fine, a terra come un feto morto. È la cifra della Dante già in Bestie di scena , dove nudità rimava già con vulnerabilità.

Eppure quanta cura in questa scatola vuota, La sua nera freddezza richiama la lezione di Peter Brook, sì, ma anche la generosa possibilità di essere riempita, fin quasi a scoppiarne. Così, leggenda vuole che Eduardo riempisse appositamente i cassetti dei mobili in scena, affinché lo sforzo fatto dagli attori per aprirli li rendesse più autentici. Mutatis mutandis, qui reali sono i cibi strafogati dalla corte per ingolosire il Re defecatore di uova d’oro. Alternano le prelibatezze francesi da ora del tè ai cibi meno raffinati, ma propri della più schietta tradizione partenopea. E quanta Napoli c’è, in quei piatti di spaghetti, che dicono subito “Miseria e nobiltà” e rievocano pure i battibecchi moglie/marito, altro argomento di dissapore fra l’austera oculata regina  femme savante e il pur regal sperperatore consorte. E poi le musiche – da “Lascia ch’io pianga” di Handel a “Passacaglia”  di Battiato, passando per la satira operistica. Capaci, da sole, di creare la più potente coreografia immaginifica, entro cui far muovere quei corpi grotteschi, hanno la stessa versatilità degli inginocchiatoi – all’occorrenza, gaudenti poltroncine di società -, quasi a ricordarci, che, in fondo, la vita è come una chicchinella: una beffa, a guardarla lucidamente, oppure una farsa.

In fondo, forse solo il razzolare ignaro di una gallina (dalle uova d’oro).

Visto al Piccolo Teatro Melato di Milano il 19 marzo 2024

https://www.facebook.com/PiccoloTeatro/videos/3257637714380776?locale=it_IT

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