RUMOR(S)CENA – TEATRO GRECO DI SIRACUSA –Follia mandata dagli dèi e senso dell’onore che, ferito, porta al suicidio travolgono l’esistenza sia di Aiace, sia di Fedra, protagonisti rispettivamente di Aiace di Sofocle e Fedra-Ippolito portatore di corona di Euripide, in scena al Teatro Greco di Siracusa: due percorsi esistenziali segnati da una sofferenza insanabile che trova scampo solo nella morte. Al sangue di cui è intriso il dramma sofocleo allude in maniera didascalica ma visivamente efficace l’ampio drappo a chiazze purpuree disteso sulla scena. Dalle sue pieghe emergono a mano a mano personaggi e oggetti in una climax ascendente che porta progressivamente alla luce l’abisso di violenza e di pazzia nel quale è precipitato Aiace per volontà di Atena. La dea, sdegnata con l’eroe macchiatosi di hybris per aver rifiutato il suo aiuto in battaglia, ne ha ottenebrato la mente. Furioso per la decisione degli Atridi di assegnare le armi di Achille a Odisseo e non a lui, Aiace travolto dalla follia, ha compiuto una strage di armenti credendo di uccidere i principi degli Achei.
È la stessa Atena a svelare alla vista di Odisseo (un convincente Daniele Salvo), mentre si aggira inquieto alla ricerca della verità su quanto è accaduto, la drammatica condizione di Aiace. Nella regia di Luca Micheletti che dello spettacolo è anche possente protagonista, fisicamente e vocalmente adatto al ruolo – è un valente baritono -, la dea, dopo avere scoperto il corpo insanguinato dell’eroe, incombe su di lui torturandone gli occhi resi ciechi di fronte alla realtà, in una manifestazione di potere sottolineata dalla dislocazione spaziale a piramide a sovrastare contemporaneamente lo stesso Odisseo, sconvolto testimone della potenza divina.
Diversamente da quanto accade nel testo sofocleo, la presenza di Atena, affidata a un metamorfico Roberto Latini, magistrale nel modulare corpo e voce, si perpetua, con felice intuizione registica, per tutta la messa in scena, ora come spettatrice inquietante e compiaciuta della sofferenza umana da lei provocata, ora prendendo le sembianze del messaggero per irridere le false speranze degli uomini, ora come subdola burattinaia dell’agire dei personaggi.
La presa di coscienza della grottesca strage compiuta porta Aiace alla disperazione nella consapevolezza di aver perduto la timé, l’onore, nei rapporti con la comunità. Il suo gesto lo espone al riso (ghélos) dei nemici e lo emargina all’interno di quella che l’antropologo Eric Dodds definisce “civiltà della vergogna” secondo la visione propria della tradizione epica omerica. Da qui, il tema della derisione e dell’oltraggio che ne deriva, unito alla denuncia della follia (nósos, manía) di cui è stato vittima l’orgoglioso guerriero di Salamina, innerva tutta la tragedia e la percorre in maniera martellante.
È dunque arduo il compito di trasmettere al pubblico di oggi pensieri e sentimenti legati a un mondo arcaico, lontano dalla nostra sensibilità. Luca Micheletti ha affidato a una resa di impronta tradizionale il nucleo semantico del testo: recitazione sostenuta, costumi e oggetti di scena antichi con qualche incursione nel ‘900, disegnati da Daniele Gelsi. Il tutto sorretto dalle pregevoli musiche originali di Giovanni Sollima, suonate dal vivo da un ensamble – tre violoncelli, arpa, e percussioni, ai quali si affiancano un flauto, un clarinetto e un trombone – e modulate su più registri, dalla ritualità all’espressività, per cogliere e accompagnare le varie anime della tragedia, in sintonia con la traduzione di Walter Lapini che abbraccia una gamma di toni, dal colloquiale al lirico. Vengono così valorizzati i canti del Coro (diretto da Davide Cavalli e Marcello Mancini con le coreografie di Fabrizio Angelini) che il regista restituisce in maniera integrale, con un gusto proprio del mondo della lirica dal quale proviene.
Sul piano narrativo, all’intransigenza di Aiace si oppone invano la ragionevolezza amorevole di Tecmessa, prigioniera di guerra, sua sposa, in un contrasto caratteriale ed etico, sottolineato anche visivamente dal bianco dell’abito campeggiante sullo sfondo del rosso e del nero dominanti, e reso da Diana Manea con sensibilità e misura. La spettacolarità scenografica tocca la sua acme nell’episodio del suicidio di Aiace: la caduta dall’alto del drappo insanguinato rivela un enorme scheletro trafitto nella gabbia toracica dalla spada, quella donatagli dal nemico Ettore, con cui l’eroe si dà la morte. Una soluzione che esime il regista dall’ostensione “realistica” del cadavere intorno al quale si consuma la seconda parte della tragedia: la disputa tra Teucro, fratellastro di Aiace venuto a seppellirne il corpo, e gli Atridi, Agamennone (un autorevole Edoardo Siravo) e Menelao (Michele Nani), che si oppongono, in un estremo gesto di disprezzo e di odio per un guerriero che ha attentato alla loro vita.
È una contesa acerrima – come sarà poi nell’Antigone, composta da Sofocle una decina di anni dopo -, dove alle ragioni della pietà dovuta a un defunto, peraltro benemerito nei confronti dei Greci, si contrappone il richiamo alla necessità di obbedire ai capi di un esercito, così come un cittadino deve rispettare le leggi della polis. Nello spettacolo, la tensione drammatica dei versi greci si allenta per la fragilità caratteriale con cui viene connotata la figura di Teucro (Tommaso Cardarelli), che invece debole non è: benché sia nato con una macchia genetica – è figlio bastardo del re Telamone -, Teucro si batte con coraggio e dignità. Sente su di lui il peso di una responsabilità enorme, sovrastato, come del resto lo stesso Aiace, dall’immagine della figura paterna, un uomo integerrimo e severo. Teucro è l’anello di congiunzione tra la vecchia generazione, Telamone, e la nuova, il piccolo Eurisace, al quale il padre Aiace ha consegnato il suo scudo prima di suicidarsi. Un tema questo disatteso nello spettacolo per la scelta fatta da Micheletti di portare sulla scena nella parte di Eurisace la propria bambina, ancora infante, la cui presenza ha aperto una parentesi di tenerezza, disfunzionale rispetto alle implicazioni della tragedia.
La pochezza degli Atridi manipolati da Atena che imbecca Menelao, suggerendogli le battute sprezzanti, viene infine rintuzzata da Odisseo con il richiamo all’osservanza della giustizia e delle leggi degli dei: è la sua figura di eroe pietoso nei confronti di colui che un tempo gli era nemico a incorniciare la vicenda di Aiace nella meditazione sulla precarietà del destino dell’essere umano, in balia della sorte e della volontà imperscrutabile degli dei.
Fedra
In una dimensione più vicina alla sensibilità contemporanea, quella dell’eros colpevole e impossibile, si innesta la vicenda di Fedra, la sposa del re Teseo innamoratasi del figliastro Ippolito per volontà di Afrodite, sdegnata col giovane per il suo rifiuto dell’amore e la sua dedizione al culto di Artemide, dea della caccia e dei boschi. Il fascino seduttivo e la crudeltà implacabile di Afrodite si incarnano con efficacia in Ilaria Genatiempo che rivestita di un sontuoso abito color avorio, con corazza e corona dorata, dà inizio all’azione raccontandone la genesi e anticipandone il tragico epilogo.
Arrivano così, da subito, tersi e chiari i versi euripidei nella limpida traduzione di Nicola Crocetti, sempre magistrale nel suo pluriennale e multiforme lavoro di traduttore capace di coniugare poesia e dicibilità. È una fluida traccia drammaturgica sul quale scorre la lettura di Paul Curran, regista d’opera scozzese, che senza stravolgere il dettato originale, scava nel testo per mettere in luce la complessità contraddittoria dell’amore con il suo carico di dolcezza e di sofferenza.
La sua è una messa in scena che ha saputo parlare alla sensibilità dei tanti giovani presenti grazie anche all’interpretazione espressiva, ma misurata e priva di enfasi, di Riccardo Livermore. Nella parte di Ippolito l’attore entra in scena accompagnato da un gruppo festante di ragazze e ragazzi (il coro è diretto da Francesca Della Monica), dai vestiti colorati e il capo ornato di fiori, sull’onda di una musica trascinante (composta da Matthew Barnes e arrangiata da Ernani Maletta) che ci riporta alla cultura hippie degli anni Sessanta con le sue istanze di libertà e atteggiamenti anticonvenzionali. È un quadro dinamico in cui si fondono epoche diverse, come testimonia il gesto di uno dei coreuti che fa partire la musica cliccando sullo smartphone. Ippolito indossa pantaloni bianchi e una giacca scintillante di paillettes aperta sul petto nudo: un abbigliamento che ne esalta l’attrattività sessuale in contrasto con la sua pervicace scelta di castità.
Dall’alto dell’impalcatura di tubi innocenti che chiude la scena a simboleggiare il palazzo reale, come se fosse un luogo freddo e respingente, scende Fedra, sconvolta dalla passione instillatale da Afrodite. L’abito che indossa è elegante, di foggia moderna, color giallo acido. Intorno a lei le donne del coro sono avvolte in pepli bianchi, bordati di lilla. Al suo fianco la Nutrice è una figura austera, stretta in un abito nero primi ‘900. Un contesto eterogeneo (disegnato da Gary McCann che ha ideato anche la scenografia) nel quale faranno irruzione, dopo il suicidio di Fedra, i coreuti abbigliati come uomini della protezione civile con tute e giubbotti catarifrangenti e caschetto giallo in testa. Mondo antico e moderno si fondono così, attraversando culture lontane tra loro, nella perenne attualità della passione d’amore. Poiché è l’eros nelle sue molteplici manifestazioni, che non conoscono l’usura del tempo, il fulcro del racconto.
La prima parte della tragedia è dominata dalla sofferenza di Fedra, incapace di resistere al sentimento che la squassa e ne divora mente e corpo. Efficace sulla scena lo stringente dialogo tra l’eroina e la Nutrice che mette a diretto contatto le due attrici, Alessandra Salamida e Gaia Aprea, l’una alla prima esperienza al Teatro Greco, l’altra veterana della scena siracusana, che domina con sicura tecnica attoriale. È un rapporto genitoriale quello tra le due donne, sottolineato dall’appellativo, “bambina”, con cui l’anziana balia si rivolge a Fedra, assumendosi un ruolo protettivo che avrà però esiti nefasti.
Sgomenta di fronte alla ripulsa di Ippolito, che respinge sdegnato la rivelazione dell’amore di Fedra fattagli dalla Nutrice, e sconvolta dal pensiero dell’infamia che la travolgerà, l’eroina si impicca trascinando nella rovina Ippolito con una lettera nella quale lo accusa di stupro. L’arrivo di Teseo apre la seconda parte della tragedia dominata dal rapporto padre-figlio e giocata di fronte al cadavere della donna, muto testimone di un atto indicibile. Alessandro Albertin dà vita a un personaggio di profonda umanità, senza toni declamatori o retorici. Dolore, sdegno e infine ira ne lacerano l’anima per spegnersi poi nell’amara e disperata consapevolezza dell’innocenza del figlio da lui maledetto e in ultimo morente tra le sue braccia. Il coacervo di sentimenti che mette in connessione tra loro i vari personaggi nel corso della vicenda si riflette nell’enorme testa femminile sovrastante l’orchestra. È la testa di studio di un frenologo, animata da luci, proiezioni di video mapping (di Nicolas Bovey e Leandro Summo) e mutazioni strutturali.
Quella che a un primo sguardo sembra essere simbolo della divinità, si rivela specchio dell’umana sofferenza: le fiamme della passione e il deflagrare del dramma, la sofferenza di Fedra e le mortali ferite di Ippolito alla cui insanguinata fisicità fa eco la lacerazione interiore del padre, che non ha saputo capire, si succedono con prepotente evidenza. E dal suo interno emerge nel finale Artemide, (Giovanna Di Rauso rosso-vestita) a chiudere con la rivelazione della verità il cerchio degli eventi messi in moto dalla volontà divina.
Aiace di Sofocle
Regia Luca Micheletti
Traduzione Walter Lapini
Musiche originali Giovanni Sollima
Scene e Luci Nicolas Bovey
Costumi Daniele Gelsi
in collaborazione con Elisa Balbo
Maestro del coro Davide Cavalli
Altro maestro del coro e maestro di sala Marcello Mancini
Coreografie Fabrizio Angelini
Drammaturgo Francesco Morosi
Cast
ATENA / MESSAGGERO Roberto Latini
ODISSEO Daniele Salvo
AIACE Luca Micheletti
TECMESSA Diana Manea
EURISACE Arianna Micheletti Balbo
TEUCRO Tommaso Cardarelli
MENELAO Michele Nani
AGAMENNONE Edoardo Siravo
ATE / THANATOS Lidia Carew
Coro di marinai
CORIFEI Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Grilli, Mino Manni, Francesco Martucci
COREUTI Giovanni Accardi, Gaetano Aiello, Ottavio Cannizzaro, Pasquale Conticelli, Giovanni Dragano, Raffaele Ficiur, Gianni Giuga, Paolo Leonardi, Marcello Mancini, Marcello Zinzani
Accademia d’Arte del Dramma Antico, sezione Giusto Monaco
Marinai
Tommaso Arquilla, Alberto Carbone, Giovanni Costamagna, Alessandro Cunsolo, Christian D’Agostino, Carlo Alberto Denoyè, Gabriele Esposito, Lorenzo Ficara, Ferdinando Iebba, Marco Maggio, Lorenzo Marra, Moreno Pio Mondì, Matteo Nigi, Lorenzo Patella, Tommaso Quadrella, Daniele Sardelli, Massimiliano Serino, Davide Sgamma, Stefano Stagno, Giovanni Taddeucci.
Erinni/Soldati/Dèi
Andrea Bassoli, Davide Carella, Carloandrea Donizetti, Salvatore Mancuso, Carlo Marrubini, Riccardo Massone, Giuseppe Oricchio, Davide Pandalone, Francesco Ruggiero, Flavio Tomasello
Violoncelli | Francesco Angelico, Christian Barraco, Cecilia Costanzo
Percussioni | Giovanni Caruso
Arpa Giuseppina Vergine
Clarinetto Marcello Zinzani
Trombone Paolo Leonardi
Fedra –Ippolito portatore di corona– di Euripide
Regia Paul Curran
Traduzione Nicola Crocetti
Scenografia Gary McCann
Costumi Gary McCann
Musiche del coro iniziale Matthew Barnes
Musiche dello spettacolo Ernani Maletta
Luci Nicolas Bovey
Video design Leandro Summo
Drammaturgo Francesco Morosi.
Assistente alla regia Michele Dell’Utri
Direttrice del coro Francesca Della Monica
Responsabile del coro Elena Polic Greco
Cast: AFRODITE Ilaria Genatiempo
IPPOLITO Riccardo Livermore
UN SERVO Sergio Mancinelli
NUTRICE Gaia Aprea
FEDRA Alessandra Salamida
TESEO Alessandro Albertin
MESSAGGERO Marcello Gravina
ARTEMIDE Giovanna Di Rauso
CORIFEE Simonetta Cartia, Giada Lorusso, Elena Polic Greco, Maria Grazia Solano
CORO DI DONNE DI TREZENE Valentina Corrao, Aurora Miriam Scala, Maddalena Serratore, Giulia Valentin, Alba Sofia Vella
Accademia d’Arte del Dramma Antico
CORO
Caterina Alinari, Allegra Azzurro, Andrea Bassoli, Claudia Bellia, Carla Bongiovanni, Clara Borghesi, Davide Carella, Carlotta Ceci, Federica Clementi, Alessandra Cosentino, Sara De Lauretis, Ludovica Garofani, Enrica Graziano, Gemma Lapi, Zoe Laudani, Salvatore Mancuso, Carlo Marrubini Bouland, Arianna Martinelli, Riccardo Massone, Linda Morando, Giuseppe Oricchio, Davide Pandalone, Carloandrea Pecori Donizetti, Alice Pennino, Francesco Ruggiero, Daniele Sardelli, Flavio Tomasello, Elisa Zucchetti.
Viste il 10 e 12 maggio al Teatro Greco di Siracusa
Le tragedie sono in programmazione, Aiace, fino al 7 giugno, Fedra fino al 28 giugno, per il 59° ciclo di spettacoli classici che dal 13 al 29 giugno sarà completato dall’allestimento di Miles gloriosus di Plauto.