RUMOR(S)CENA – VICENZA – Una lunga standing ovation ha meritatamente suggellato la rappresentazione di Oresteia, realizzata da Theodoros Terzopoulos, autore di regia, adattamento, scenografia, costumi e illuminazione. Lo spettacolo, che ha aperto il 77° Ciclo dei Classici del Teatro Olimpico di Vicenza, con la direzione artistica di Ermanna Montanari e Marco Martinelli, arriva in Veneto dopo il debutto al Festival di Atene ed Epidauro lo scorso luglio.
L’allestimento della trilogia di Eschilo rappresentata nel 458 a.C. e unica giunta a noi della produzione greca classica, trova nell’architettura palladiana e nella ricchezza della scenografia scamozziana, con il suo dedalo inimitabile di porte e di vie prospettiche, una cornice di magnificenza che gli conferisce un valore aggiunto non solo estetico ma semantico: alla bellezza apollinea e statuaria della skené si contrappone l’energia dionisiaca dell’azione scenica, propria del regista greco, in un avvincente contrasto visuale e concettuale.
Una bianca pedana circolare, attraversata da 4 diametri neri e circondata da bianchi teli macchiati di sangue, occupa il centro del palco e diventa il focus del racconto, recitato in greco moderno e tradotto in italiano nei soprattitoli, con drammaturgia di Irene Moundraki. Su di essa agisce il Coro, venti tra ragazze e ragazzi, che costituisce l’asse portante dello spettacolo. Tre ore e mezza di impegno fisico ed emotivo continuo, fatto di movimenti scolpiti nello spazio, di voci intense, di fiati emessi come urli muti, di grida che graffiano l’anima. I volti dei coreuti assumono fisionomie distorte: a tratti sembrano riprodurre le maschere della tragedia greca con la bocca atteggiata al grido, a tratti ricordano L’urlo di Munch con il suo carico di dolore e disperazione, dando origine a immagini ora geometriche, ora scomposte, sempre potenti e travolgenti. Ad accompagnarli, i suoni creati da Panayiotis Velianitis, mai esornativi e superflui, e le luci scultoree e cariche di pathos.
Costante sulla scena la presenza del corifeo, il magnetico Tasos Dimas, dal volto scavato ed espressivo. Apparso all’inizio nelle vesti della sentinella incaricata da Clitemnestra di spiare ogni notte stando sul tetto della reggia l’arrivo dei segnali di fuoco che annunciano la caduta di Troia, l’attore esprime l’angoscia che attanaglia la città, presaga di mali futuri. La sua è una recitazione antirealistica, accompagnata da movimenti parossistici e da intonazioni stranianti, mentre un ronzio di insetti tormenta l’aria.
Non c’è niente di fittiziamente archeologico o di paludato nella messa in scena, nei costumi e nell’atteggiamento dei vari personaggi: Clitemnestra (Sophia Hill), con mosse seduttive, veste abiti moderni, di alta sartoria, l’autorevole Atena(Aglaia Pappa) indossa un tailleur di un giallo sgargiante chiazzato d’oro, Elettra (Niovi Charalambous) pantaloni e gilet nero, l’ambiguo Apollo (Nikos Dasis) un immacolato completo bianco, Cassandra (Evelyn Assouad) avanza consapevole verso il suo destino portando le sneakers appese al collo, Agamennone (Savvas Stroumpos) e Oreste sono a torso nudo, mentre Egisto (David Malteze) porta la giacca. I movimenti del re e dell’usurpatore, superbi detentori del potere, richiamano le marce delle schiere naziste.
Agamennone, Coefore ed Eumenidi si succedono senza soluzione di continuità né ci sono cadute di tensione. Terzopoulos imprime forza e incisività anche all’ultima parte della trilogia, spesso poco valorizzata, e la carica di senso. Il percorso dall’arcaica legge del taglione all’amministrazione illuminata della giustizia e del potere non è esente da compromessi e ambiguità: le Erinni, le antiche dee ctonie, sono private delle loro prerogative e neutralizzate con promesse di onori illusorie, come denuncia la loro lenta ed estenuata uscita di scena a carponi.
Comincia così una nuova era, ma il nuovo mondo riserva morte e distruzione al pari dell’antico; cambiano solo gli strumenti bellici: lo indicano le detonazioni che lacerano l’aria nel finale. Wellcome to the new world! recita in chiusura l’ironica didascalia a denunciare l’angoscia esistenziale dell’umanità contemporanea, lacerata da conflitti sanguinosi e da tempeste economiche e sociali.
Il Canto di Edipo
Un’esile figura femminile vestita di nero con sulle spalle due piccole ali, anch’esse nere, scruta a lungo la platea con sguardo indagatore, poi prende un microfono e invita gli spettatori a spegnere i cellulari. È la Sfinge che pone l’indovinello a cui risponde Edipo, guadagnandosi così il trono di Tebe, inconsapevole del destino incombente.
Si apre con uno spiazzante cortocircuito tra mito e contemporaneità Il Canto di Edipo, la versione site specific concepita per il Teatro Olimpico dal regista e autore Alessandro Serra, fondendo in un unico testo Edipo Re e Edipo a Colono di Sofocle. Per avvicinarsi il più possibile alle sonorità del greco antico e alla sua fascinazione musicale non riproducibile in italiano, l’artista ha scelto di tradurre il copione in grecanico, la lingua che ancora oggi si parla in una striscia di terra di quella che fu la Magna Grecia, un idioma frutto di innesti culturali succedutisi nel tempo.
A Salvino Nucera, poeta e traduttore, è stato quindi affidato il compito di traghettare la fabula in un linguaggio «non ostile e concettuale ma istintivo e sensuale». Una voce dell’anima, nella cui tessitura assume risalto non tanto il significato delle singole parole quanto il loro suono e l’onda melodica che ne deriva. Parole che sono diventate canti composti dal musicista Bruno De Franceschi e poi testati sulla scena e modificati in interazione con i movimenti degli attori e la loro dislocazione nello spazio.
Pochi gli oggetti a disposizione degli interpreti: la corona regale, un drappo rosso, bastoni, poco altro, e un piccolo sgabello: ora roccia su cui si apposta la Sfinge nel suo minaccioso incombere su Tebe, ora basamento per la statuaria presenza oracolare di Apollo, ora, ed è uno dei momenti più intensi dello spettacolo, supporto su cui si consuma il suicidio di Giocasta, incarnata dalla sottile ma espressiva fisicità di Chiara Michelini.
Incisivi tutti gli attori capitanati da Jared McNeill, monumentale nel ruolo di Edipo, prima sovrano tracotante e sicuro di sé, poi cieco pellegrino e mendìco: la versatile Chiara Michelini, Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Felice Montervino. Tutti insieme danno vita a un Coro avvolgente, dal quale prendono vita i vari personaggi: Giocasta, Antigone, Ismene, Polinice, Teseo, Creonte, i pastori.
Scene e costumi, luci e suoni carichi di significati, sono creazione dello stesso Serra col quale hanno collaborato per i movimenti di scena Chiara Michelini, per il suono Gup Alcaro, per le luci Stefano Bardelli, per i costumi Serena Trevisi Marceddu.
Corpo e danza completano l’insieme di una performance vibrante di emozioni, dove il senso del sacro insito nella tragedia greca pervade la scena e conduce gli spettatori in una dimensione metafisica e rituale. Il percorso esistenziale di Edipo, esemplare della condizione dell’uomo in balia del destino e incapace di interpretare il disegno degli dei, si chiude, dopo il buio della cecità metaforica e poi fisica, nella luce dell’apoteosi finale a cui Serra appone una clausola di speranza: «Solo una parola può dissolvere tutti i tormenti: amore».
Oresteia di Theodoros Terzopoulos
Visto al teatro Olimpico di Vicenza il 20 settembre 2024
produzione National Theatre of Greece
Il canto di Edipo di Alessandro Serra
Visto al teatro Olimpico di Vicenza il 27 settembre 2024
produzione Sardegna Teatro, Teatro Bellini, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Due Parma
in collaborazione con Compagnia Teatropersona, I Teatri di Reggio Emilia