Ha debuttato il 23 novembre scorso a Veneziaindanza “Stabat Passio” di Michela Barasciutti. Un percorso di meditazioni in danza sul rapporto fra passione e compassione che si conclude con uno struggente tableau vivant, come simbolico invito all’accoglienza dell’Altro senza riserve.
RUMOR(S)CENA – VENEZIA – Un insolito sole ha illuminato i giorni di novembre a Venezia, attenuando la malinconia propria della città d’acqua. E incoraggiando, in ugual misura, un turismo sempre più accalcato per ponti, calli e traghetti. E’ la benedizione/maledizione dell’Italia bella, che attira visitatori da tutto il mondo ma in qualche modo ne viene soffocata. C’è però chi resiste all’invadenza da cartolina, piccole preziose sacche di resistenza artistica come Veneziaindanza, breve e intensa rassegna di spettacoli in quel gioiello che è il teatro Malibran.
La dirige con eroica insistenza Michela Barasciutti, affiancata dal compagno d’arte e di vita, Stefano Costantini, con una proposta di pochi titoli scelti e di qualità. Quest’anno, per la sedicesima edizione, c’era, per dire, l’esclusiva europea dei Solisti del GaertnerPlatz Theater di Monaco, un dittico a firma di Mauro Bigonzetti e di Michele Merola con la sua MM Contemporary Dance Company, una delle compagnie italiane più eleganti, e il debutto della nuova produzione della stessa Barasciutti, Stabat Passio.
I lavori che Michela dedica alla sua rassegna – uno ogni edizione – sono opere meditate, create da un istinto che non sa di botteghino né di fretta spicciola. Dopo l’intenso Io Maria, Lei Callas dello scorso anno, intonato ai chiaroscuri della personalità del grande soprano, stavolta tocca a un’indagine delicata sull’empatia in tempi di guerra. Stabat Passio esplora infatti il rapporto fra passione e compassione, quella “condivisione con l’Altro che specchiandosi diventa accoglienza, attenzione, accudimento”, come spiegano le note di sala. Non si nominano esplicitamente i conflitti che straziano la nostra attualità, così come la danza segue un percorso più spirituale che narrativo. Grandi tableaux vivants che si susseguono, all’inizio quasi privi di uno sviluppo consequenziale, un po’ smarriti nel gran buio dell’anima. C’è la traccia musicale che Stefano Costantini inanella con raffinata attinenza a rischiarare il cammino, dagli echi arcaici di Arvo Pärt (Fratres) alle arie vibranti dello Stabat di Pergolesi, ma anche con perle inaspettate come le nostalgiche velature mahleriane espresse da Uri Caine al pianoforte sulle note dell’Adagietto della Quinta.
I danzatori scelti della compagnia Tocnadanza si muovono fluidi, intrecciando abbracci e distacchi, con camminate ieratiche che sembrano avere l’imprinting di Micha van Hoecke, presso il cui ensemble Michela è stata storica danzatrice per anni. E’ quell’alto “apprendistato” ritrovato che fa del lavoro di Barasciutti un elemento pregiato, la trasmigrazione di un modo di fare danza che appartiene a una tradizione sempre più rara.
Tutto il gruppo (Sara Cavalieri, Fabio Caputo, Roberta De Rosa, Erika Melli e Giulio Petrucci) si muove trovando nella sintonia il senso profondo della performance. Ci confrontiamo, ci sentiamo, ci siamo l’uno per l’altra. Così nella discesa finale, nello scioglimento struggente di tutti i nodi drammaturgici, nel dispiegarsi in una postura da passione cristologica. Così, r-accogliendo il corpo dell’Altro germoglia la pietas, e, insieme, la speranza di una nuova alba da aspettare riuniti.
Visto al Teatro Malibran di Venezia il 23 novembre 2024