A trentasei anni di distanza da quel 25 luglio 1976 in cui Einstein on the Beach fu presentato per la prima volta al pubblico durante il Festival di Avignone, l’opera lirica di Bob Wilson e Philip Glass, diventata leggenda, pagina di manuali, tassello imprescindibile di qualsiasi ricerca teatrale contemporanea, torna in scena per offrirsi a un pubblico completamente rinnovato (o quasi). Sul palco del Teatro Valli di Reggio Emilia, in esclusiva nazionale, lo spettacolo che ha scritto la storia del nuovo si ripropone, sebbene con un cast di giovanissimi interpreti che nel ’76 neanche erano nati, in tutta la sua forza dirompente. E sembra quasi un ossimoro, se si pensa all’idea di lentezza glaciale e di dilatazione del tempo che ha sempre contraddistinto le memorie di chi poté vedere la prima versione dello spettacolo.
L’Einstein porta con sé, in questa ripresa, tutto il carico di fascino e di mistero della versione originaria.
A cominciare dalla figura stessa del fisico di Ulm che compare fisicamente, di tanto in tanto, nei panni di violinista, collocato a metà, tra la buca dei musicisti e il palco dei danzatori. Ma Einstein è soprattutto nell’atmosfera, si aggira sul palco nei dettagli scenografici, negli orologi, nelle bussole, negli ascensori trasparenti che sollevano in aria le figure, nei riferimenti all’energia nucleare, alla bomba atomica e all’eclissi. È in una miriade di elementi espliciti o meno, nelle associazioni spontanee create dal regista e in quelle che nascono altrettanto spontaneamente nella mente dello spettatore.
Nessuna trama dunque. Tre macro-scene in cui un treno, un’aula di tribunale e una navicella spaziale si susseguono sul palco. Canti in cui si solfeggiano note e numeri. Inserti verbali privi di significato narrativo. Schiette immagini che si offrono nella loro autoreferenzialità. Puro teatro come pura pittura erano i Pagliai di Monet agli occhi di Kandinskij. Completa deflagrazione del senso a favore di suggestioni visive e sonore.
Che cos’è dunque l’Einstein? O, almeno, cosa appare di fronte agli occhi storditi dello spettatore nelle poco meno di cinque ore di messa in scena?
Avete mai visto quel cerchio in cui si mescolano bianco e nero intrecciati in una spirale che per effetto ottico sembra girare verso l’interno all’infinito? Quel cerchio che si associa, nell’immaginario comune, alla tecnica dell’ipnosi? Bene. Perché Einstein on the beach, nella percezione dello spettatore, è il parallelo teatrale di quel cerchio. A guardarla bene quell’immagine, sezionandone a freddo la composizione, è chiaro come l’effetto ottico sia dovuto a due procedimenti: l’aumento progressivo di una delle due bande di colore (con conseguente riduzione dell’altra) e il reiterarsi del movimento circolare. Se con la stessa freddezza si osserva lo spettacolo di Wilson, emerge con chiarezza quanto esso sia fondato scientificamente proprio su sequenze additive e ripetizione ciclica delle partiture. L’equazione non è difficile. Stessa struttura, stessi effetti. Einstein on the beach ipnotizza il pubblico.
Bob Wilson e Philip Glass sovrappongono livello su livello (musica, partitura fisica, scenografia) applicando a ognuno i medesimi meccanismi. Glass mette a punto una partitura musicale basata su procedimenti, appunto, additivi e ripetitivi, cioè su battute di pochissime note che si ripetono più volte caricandosi di volta in volta di una nuova nota che ne altera quasi impercettibilmente la direzione melodica. Allo stesso modo nella partitura fisica degli attori si osservano micro-sequenze di movimenti che nel reiterarsi mostrano progressive e chirurgiche variazioni. È il caso della danzatrice che, nella scena del treno, ripete per un tempo estremamente lungo una stessa diagonale accompagnata da un medesimo gesto del braccio che si modifica, non percepito, nel corso della sua durata.
Wilson gioca con la percezione dello spettatore, ne frustra le attese dilatando i tempi all’inverosimile, ne inganna la vista. Lo immerge in un tempo congelato, extra-ordinario che ne inibisce le capacità di orientamento spazio-temporale. Sorprendente la scena del “treno notturno”, in cui un’eclissi lunare si compie in quasi venti minuti con una tale millimetrica lentezza da passare completamente inosservata alla maggioranza degli spettatori. I quali si trovano meno ingenui, ma solo per volontà del regista, nel caso dell’enorme letto che si trasforma, con un gioco di luci tipicamente wilsoniano, in una barra luminosa che si staglia verticale nel buio totale, ascendendo verso l’alto in un tempo di diciotto minuti circa, fino a scomparire del tutto. Protagonista assoluta del palcoscenico, la linea luminosa è accompagnata, nel suo inesorabile salire, dalla voce di un soprano, Hai-Thing Chinn che intona un’aria sublime conferendo enorme liricità alla scena. Questo intervento musicale/vocale costituisce, forse, l’esempio più indicativo della scelta di Glass di coniugare, nelle sue composizioni per l’Einstein, una razionalità quasi matematica a un’intensa carica emozionale.
Strutture simmetriche e replicanti anche per le due lunghe sequenze di danza che si inseriscono nella fitta griglia della drammaturgia, composta da quattro atti per nove scene complessive più cinque Knees, “intermezzi” di giuntura tra una scena e l’altra. Le coreografie di Lucinda Childs disegnano simmetrici intrecci tra figure bianche che intersecano movimenti asciutti, segnando lo spazio quasi a volerne calcolare le misure, le dimensioni, le possibilità.
Ogni elemento, quindi, concorre sulla scena a sospendere la razionalità di chi osserva, a ipnotizzarlo appunto, a proiettarlo in una dimensione onirica, dove i ragionamenti logici sono banditi e le associazioni libere la fanno da padrone. Ogni sguardo ha diritto di scegliere una propria prospettiva, di inventare collegamenti, di interpretare le immagini secondo i filtri della propria personale idea dello scienziato. Tutte le suggestioni che Wilson propone sono tarate per essere assolutamente relative, dal punto di vista della percezione del pubblico. La teoria della relatività, in questo senso, costituisce forse il riferimento implicito e soggiacente più importante alla figura di Albert Einstein.
A più di trent’anni dal momento in cui fu concepito da Wilson e Glass, nonostante tanti concetti su spazio e tempo della scena siano pienamente acquisiti, questo spettacolo mantiene una forza d’impatto travolgente. Non bastano indagini tecniche e rivelazioni di sorta a spiegare il fascino che esercita sul pubblico contemporaneo che pure è così poco abituato ai tempi lunghi e ai ritmi lenti. È il mistero di tutti i capolavori, croce e delizia di ogni critico.
Visto al Teatro Valli il 25 marzo 2012