Alla Biennale Teatro di Venezia, un giovane artista che lavora come un artigiano della scena d’altri tempi. Attore, regista, drammaturgo, Luca Micheletti è uno dei quattro registi impegnati nel laboratorio di regia guidato da Luca Ronconi.
Non si fatica a credere che Micheletti sia, innanzitutto, un attore che conosce gli strumenti del mestiere: il giovane regista, durante il lavoro laboratoriale, detta i tempi e le tracce drammaturgiche, la mimica facciale e la partitura verbale, incidendo fortemente sull’interpretazione dei quattro attori che dirige. Chiamato a lavorare, come gli altri tre registi del laboratorio, su Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, Micheletti si concentra sul tema del doppio: due coppie di Verri e Mommina, due pubblici. Due blocchi che si spiano a vicenda, come in uno specchio in cui l’originale e l’immagine riflessa si osservano senza riuscire più a distinguere la propria natura di verità o di finzione.
Nei ruoli di Verri e Mommina, quattro giovani interpreti che si misurano con una recitazione dai toni grotteschi, rivelando una peculiare capacità di adattamento al disegno registico. Nel caso delle due attrici, Stella Piccioni e Giulia Rupi, il corpo, alto, femminile, si impone con una certa forza pur rimanendo asciutto e composto nel’azione, squadrato, quasi impostato solo su linee rette. Allo stesso modo il tessuto verbale, pur essendo fitto e veloce non trabocca mai. Le due attrici sembrano ingoiare le parole mentre le pronunciano con voce pulita, curata. Meno austeri, invece, i due Verri, Paolo Camilli e Antonio Veneziano, disinvolti nei sentimenti, meno straniati, più legati a un impianto recitativo naturalista.
Il regista sceglie di lavorare con loro sul finale del testo, per intervenire, con una riscrittura personale, su quella parte in cui la metateatralità della pièce si dissolve in univocità finzionale. Il fine è quello di ribaltare gli equilibri, di immettere, nelle ultime battute, la stessa dose di doppiezza contenuta nella prima parte con l’obiettivo ultimo di rendere il testo ancora più metateatrale di quello che è, di renderlo metateatrale fino in fondo, addirittura.
Esplorando il tema della recita a soggetto e, dunque, dell’identità scivolante tra attore e personaggio, nel laboratorio si coglie l’opportunità per ragionare sull’intero universo teorico pirandelliano, sul concetto di maschera e nudità, di Uno-Nessuno-e-Centomila.
Partendo dal pubblico, come a dire che non c’è troppa differenza tra interprete e spettatore, i quattro attori cominciano ad agire specularmente, come attirati dalla polvere magnetica del palcoscenico, farina bianca sparsa sul pavimento, tentando disperatamente di dare inizio a una pièce che non comincerà mai, irrigidita dall’imbarazzo. Si sporcano, di farina, irrimediabilmente, volutamente, come se imbrattandosi di polvere magica si potesse rifuggire lo sgomento di mostrarsi sulla scena senza parole scritte dietro cui nascondersi.
La realtà e la finzione non sono più discernibili: di chi sono i corpi che si agitano imbarazzati sulla scena? Degli attori della compagnia di Hinkfuss che interpretano Mommina e Verri? Degli attori di Micheletti che interpretano gli attori di Hinkfuss? Sono i personaggi stessi?
Nella visione del giovane regista i piani si sovrappongono e si mescolano rimanendo sottopelle, invisibili. Si indaga il ruolo dell’attore ma non si parla di attori, né di spettatori, né di trame da costruire.
Al doppio inteso come identità divisa di attore e personaggio, si aggiunge un secondo livello di doppiezza inerente il duplice volto dell’individuo comune e un terzo livello che oppone le due funzioni di attore e spettatore.
Parla con chiarezza, per controparte, il linguaggio dei segni teatrali. Le luci fredde e i toni recitativi grotteschi, quasi straniati, calcano con forza il regime della finzione. Micheletti rinuncia anche al respiro spaziale e claustrofobizza: uno spazio ritagliato nella sala ampia e delimitato da pareti nere, due fila di sedie poste l’una di fronte all’altra; al centro, l’azione: è come guardare dal buco della serratura, come trovarsi in un quadro di Toulouse-Lautrec a osservare voyeuristicamente l’immagine sgranata di se stessi.
Leggi gli altri articoli del laboratorio di critica della Biennale Teatro di Venezia