E’ uno studio per un’Operetta Burlesca senza operetta e senza burlesque, quello portato in scena dalla regista Emma Dante ai Teatri di Vita di Bologna nell’ambito della decima edizione del festival Gender/Bender. Se del Burlesque, arte della sinuosità, dello strip-show in versione nobilitata, della danza sensuale, non rimane alcuna traccia sotto le macerie di spogliarelli schizofrenici, della nudità cruda, e della volgarità delle carni imperfette, dell’operetta rimane ancora meno. Quello presentato dalla regista siciliana è il canovaccio di uno spettacolo di regia in piena regola travestito frettolosamente da varietà in formato moderno con tanto di soubrettina transessuale, conduttore scalda-pubblico, lucine della ribalta, paillettes e piume di struzzo.
Tutta la prima parte dello studio si risolve, in effetti, in una velocissima infilata di numeri da avanspettacolo sfacciatamente deformati e fallimentari: dal flamenco pseudo-pornografico di Pedro, al tango rovinosamente scattoso di Alejandro e Alejandra, che si rovescia in rock acrobatico, barra spogliarello di coppia compulsivo, al ritmo di Susanna di Vasco Rossi. Un varietà senza varietà, dunque, in cui gli attori ( Davide Celona, Marcella Colaianni, Francesco Guida, Carmine Maringola) non sono che esecutori di un disegno di regia, in cui il rapporto col pubblico si riduce a un furbo ammiccare con un giochino da villaggio turistico, in cui persino i fischi sono rimpiazzati da palline colorate da lanciare come segnali di stop dalle quinte. Tra un numero e l’altro Stellina, la soubrette, si sveste e si riveste in un crescendo di appariscenza pacchiana. È il festival della ferraglia luccicante, tra braccialoni e anelli giganti in finto silver, diademi di strass, perle smaltate e chincaglieria varia; una sfilata di lustrini, brillantini, raso di pessima qualità e sgargianti gonnelloni di taffettà sgualcito e pizzo ruvido.
Incastrato nel vortice chiassoso dello show, il racconto del grande amore di Stellina (Carmine Maringola) che diventa monologo impegnato, che vuole essere cammeo d’attore drammatico. Il racconto di un amore romantico, così tanto che il nome in codice dell’amato è principe azzurro. Principe di nome e Azzurro di cognome, per l’esattezza. Una passione consumata sulle note di Canzone per te di Sergio Endrigo, diventata suoneria di un cellulare. Una storia in cui Principe non raccoglie la scarpetta di vetro ma vende scarpe col tacco per transessuali in un negozio in Corso Magellano. Una storia che pare uscita dalle favole, da una fantasia, da un gioco, dal Monopoli. Una fiaba senza lieto fine, in cui il principe lascia l’altro principe per tornare dalla principessa e dai legittimi eredi.
Detto senza giri di parole, è la storia, già sentita, del transessuale abbandonato dall’omosessuale borghese ipocrita che alla fine torna sempre dalla moglie. Con un procedimento tipico della comicità amara della commedia popolare, Emma Dante sembra voler vestire il dolore di lustrini, e comprimere le lacrime nella schizofrenia della risata sguaiata, nella forza implosiva del napoletano e del siciliano, dialetti corposi, fatti di parole grasse, sputate fuori a forza di consonanti raddoppiate all’inverosimile. Dialetti che però mancano il bersaglio e scivolano sulla loro stessa estetica smaccata diventando puro folclore decorativo. Sebbene il contrasto agrodolce funzioni, in qualche momento, non si può fare a meno di notare che si tratta di procedimenti troppo abusati, per poter reggere ancora il confronto con un pubblico appena un po’ più malizioso. Ma è un giudizio prematuro, basato su uno studio, sulla visione di spunti drammaturgici ancora tutti da rimpastare e su immagini visive ancora da modellare.
Visto a Teatri Di Vita, Bologna, il 1 Novembre 2012