Giorgio Rossi, danzatore e coreografo cofondatore nel 1984 della compagnia Sosta Palmizi con la quale in 25 anni di attività ha lavorato con più di 300 danzatori, è un artista che a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta ha sicuramente cambiato qualcosa nella scena della danza contemporanea, portando una scrittura coreografica innovativa capace di trovare la sua cifra stilistica attraverso quella che, potremmo definire, una nuova poetica del movimento. La sua visione è quella di una danza che trae ispirazione dalla letteratura e dalla poesia, alle quali associa con grande sensibilità scelte musicali che fanno riferimento anche alla canzone d’autore.
Lo si è visto di recente al Teatro PimOff di Milano, dove ha presentato per due serate consecutive ”Alma”, uno spettacolo nato nel 1984 con un assolo ispirato ad una poesia di Pablo Neruda che tocca sentimenti forti come l’amore, la solitudine e la sensazione della morte, a fianco della quale in dodici anni di tempo, si sono aggiunti altri assoli ispirati alle poesie di Pavese o ad aforismi di Alda Merini accanto a canzoni di De Andrè e musiche dei Kim Krimson, Death in Vegas, Jhon Oswald.
Ne è nato così uno spettacolo che è una collage di varie umanità, una galleria di personaggi che lo rappresentano e ci rappresentano, in bilico tra ironia e disperazione, tra luci e ombre della nostra esistenza alla ricerca, come appunto recita il titolo, della nostra anima, un’anima perduta che fa sempre più fatica ad emergere dal materialismo assoluto della società contemporanea. Un’anima che è comune a più generazioni, che dal passato si proietta nel futuro nel tentativo di trovare una nuova fisionomia e che sempre più fatica ad emergere in ogni singolo individuo. Lo spettacolo è come un montaggio cinematografico nel quale il danzatore entra ed esce dai suoi personaggi servendosi di alcuni oggetti di scena che sono principalmente i libri, dai quali legge di volta in volta le varie poesie scelte o usando la sua voce o servendosi di voci registrate sulle quali segue in play back la recitazione, un po’ come faceva Carmelo Bene nei suoi spettacoli, creando un effetto di straniamento. Durante la performance cambia abbigliamento, una giacca a quadri, una camicia di lamè, occhiali, parrucche, il tutto proponendo personaggi a metà tra il clown e il danzatore attore, e proponendo una gamma di movimento che vanno dalla danza pura, al teatro danza, o alla semplice visualizzazione delle parole attraverso il gesto.
“Malgrado nei miei spettacoli l’elemento evocativo sia determinante – spiega Giorgio Rossi – lo spettatore è sempre spinto a costruirsi un suo percorso, riconosce sempre qualcosa che è legato alle proprie esperienze, al proprio sentire la vita. Quando mi chiedono che genere di danza faccio, la risposta è sempre lunga e termina comunque con l’invito a venire a vedere, sentire, percepire l’evento nel suo compiersi perché è più vicino all’esperienza di una passeggiata nella natura, nell’atto d’amare che alla comprensione di un concetto astratto legato ad un ragionamento mentale. Il teatro poetico del movimento è una definizione che può avvicinarsi a ciò che tento di fare in scena”.
Lo spettatore rimane comunque coinvolto, affascinato dalla poesia dei suoi movimenti, dall’agilità e dalla freschezza di questo giovane cinquantenne che ha attraversato tutte le diverse fasi della ricerca della danza contemporanea, dimostrando con una grande energia e anche autoironia, come si possa continuare in Italia a fare della danza d’autore di qualità, lontana dalla divulgazione commerciale di un arte, come quella della danza, che si sta sempre più mescolando alle altre forme di espressioni, allontanandosi dalla sua vera natura.