La vediamo sin dal primo momento, la giungla addomesticata dell’adorabile Sebastian Venable: un’imponente architettura vegetale, la suggestione dell’esotico nel cortile di casa. Presunzione ed illusione infinita di chi conserva in una teca di vetro una pianta carnivora: un fiore odoroso e cromato che attrae col suo fascino, ci si avvicina, ci si avvicina e poi … la pianta esotica divora. È una Natura arcaica e stregata quella si scorge dietro questa prepotente civilizzazione, in un oscillare ambivalente fra luci e “ombre luminose come la luce stessa”. L’ ambigua seduzione di ciò che è Altro spinge nell’abbraccio tremendo d’una creazione divoratrice.
Melville v’aveva visto l’inferno, Darwin gli esordi della sua teoria sulla specie. Secondo le parole della Signora Venable, alle Galapagos il suo defunto figlio aveva visto il volto divino: un Dio padre crudele, una Natura madre-matrigna. Eppure, sedotto da questa terrificante vitalità, il “poeta” aveva continuato a scrivere i suoi Canti d’Estate, anno dopo anno, fino a quando “improvvisamente l’estate scorsa”… L’ossessivo ripetersi dell’”improvvisamente” nelle parole dei protagonisti è l’ostentazione d’una pretesa ingenuità da parte di una fetta di mondo “civilizzata”, è segno d’una rimozione estremamente cara all’Occidente. La madre del defunto Sebastian non può permettere che la memoria del candido figlio venga infangata, nessuno di loro può tollerare che il candore delle più necessarie e civili certezze venga macchiato da ombre “barbariche”. Non è tollerabile. La censura paranoica deve intervenire su questi contenuti minacciosi. Proprio per questo Catherine, unica testimone della misteriosa morte del cugino, non può che essere folle. I folli dicono cose che non è permesso dire in un contesto di civiltà. La sua delirante versione su ciò che è accaduto il giorno della morte di Sebastian, nell’ assolata ed esotica Cabeza de Lobo, è una bestemmia contro il cosmo ordinato del creatore. E forse l’accaduto ha reso davvero folle la cugina di Sebastian: la verità è un fardello da cui è possibile liberarsi solo attraverso la condivisione, un racconto orrendo da esorcizzare nella collettività. Il cuore deve riuscire ad emergere dalla tenebra e a gridare all’orrore. Altrimenti non c’è altro destino se non la follia.
Il finale è una giostra agghiacciante di affamati “falchetti neri che oscurano il cielo, avidi di carne”. È l’ossessivo opporsi di un candore dispotico all’oscurità bramosa dei piccoli neri che intonano coi loro tamburelli una musica che è incubo seducente ed assunzione rituale della corporeità estranea del Bianco. E del candido angelo corruttore non rimane che qualche rosa incartata e frolla.
Dritta dal cuore e dalla vita di Tennessee Williams, questa storia racconta di una pretesa lobotomia per costringere al silenzio la verità di chi parla di vizi individuali e dei conseguenti esiti atroci. Racconta l’attrito fra il più ipocrita società perbenista e la minaccia soprannaturale di un Oltre inferico da identificarsi in un tribale, mostruoso Altro.
Potentissima la messa in scena di Elio De Capitani. La verde cattedrale tropicale di Carlo Sala, animata da ululati e sibili, precipita lo spettatore in una Natura solo apparentemente addomesticata, nel Mistero di una creazione che è anche devastazione che lo atterrisce e, allo stesso tempo, lo seduce. Apice di questa irrisolta ambiguità è la straniante musica dei tamburelli che incombe nel finale in un climax terrificante di grandissimo effetto. I Suoni e gli effetti di luce arricchiscono la potente drammaturgia di Tennessee Williams.Di valore la recitazione degli interpreti che oscilla fra la leggiadria artificiosa della buona società e la strenua volontà di rimuovere, di occultare verità troppo sconvolgenti. Così, con leggerezza, ci precipitano nell’orrore. Intenso.
Visto al Teatro Verdi di Padova il 23 gennaio 2013