«Cosa vuoi fare da grande?» : «L’astronauta». Poi quel bambino è diventato biologo marino. I mestieri non si progettano su carta: si incrociano, si amano, si sposano; un mestiere nasce da una semina a occhi semichiusi, dall’arte dell’incontro senza pregiudizi, dalla reazione dialettica tra idee, sensibilità, tensioni etiche, umori e umorismi. Il mestiere di critico non fa eccezione. Eppure non si fa in tempo a declinare le proprie generalità che spunta la domanda: «Perché hai scelto di fare il critico?».
Non si chiede a un giovane regista perché faccia il regista, né a un giovane attore perché faccia l’attore. Dal giovane critico, in quanto figura demodé si pretendono invece cronologia e bibliografia ragionata di una scelta che magari non conosce dietrologie. La critica teatrale nostrana vive un momento di ossessione auto esegetica, tutta tesa nello sforzo di guadagnarsi una cittadinanza nel mondo-teatro che racconta. Arrogandosi il diritto di pesare giovani generazioni di critici e di artisti sulla stessa bilancia, rovesciando così il quesito dal perché al come, crogiolandosi nella smaliziata possibilità di azzardare soluzioni senza pretese teoretiche, si avanza l’ipotesi che “La Tempesta” abbia messo a punto un modello interessante. Un modello che va oltre i riscontri interni, legati all’aver sottratto anonimi o meno anonimi recensori a una solitudine patologica, obbligandoli a tarare i ferri del mestiere su un progetto di gruppo, a rinegoziare continuamente la parola, la virgola e il punto.
La distribuzione diretta di un quotidiano cartaceo, la possibilità di consegnare l’oggetto-giornale e di ricevere in cambio immediata risposta dal lettore o dall’artista chiamato in causa, la permanenza in un luogo e l’attraversamento di una intera programmazione, ci hanno permesso in dieci giorni di disegnare un recinto intorno al pubblico della Biennale, di creare una micro comunità in cui si agita finalmente l’urgenza dell’opinione, un bozzetto ben riuscito di come dovrebbe essere la macro comunità teatrale.
Il modello in provetta prevede lo schiodamento di chi scrive dalla scrivania, una mano impastata per bene nei fatti a spingere con forza il teatro che ci urge, e l’altra ben salda sull’organo della deontologia professionale e dell’onestà intellettuale. Ci si affanna a ripetere che il teatro è sempre politico, perché concerne la polis, perché crea comunità. Affrancata dal compito riduttivo del giudizio, la critica può avviarsi, forse, su una via parallela. “Per un teatro politico”, senza dubbio. “Per una critica politica”, anche.